MILANO – Se c’è una cosa che colpisce, fin da subito, di questo lavoro, sono la cura e l’attenzione al particolare. Nulla è lasciato al caso. Non lo sono né l’oggettistica, né, tanto meno, la mimica perfomativa degli attori in scena. Non compiono acrobazie sbalorditive, eppure sbalordiscono, invece, per la capacità di modulare i gesti, la mimica e i tempi di reazione. Non a caso fra i crediti leggiamo: “movimenti meccanici e meraviglia”, intuendo così l’investimento precipuo fatto in tal senso. Spesso dilatati, rallentati ed estraniati, i gesti per ciò stesso sortiscono quei cortocircuiti estranianti, da cui scaturisce uno humor di gusto british. E, si sa, la risata è il meccanismo principe per sfogare la tensione qui dovuta all’accumulo di aspettative, imposto ai personaggi dalla nostra società performante. E se, in “Autoritratto con due amici”, il fallimento si rivela essere uno dei maggiori tabù – che solo la risata del pubblico può sublimare, restando invece appiccicato ai protagonisti sotto forma di imbarazzo goffo e mal dissimulato -, in “Debolezze” la tematica torna in un contesto meno legato al privato, declinandosi invece nella negazione della perfezione, in quanto situazione non ulteriormente migliorabile e, quindi, ugualmente di scacco.
Questo, in sintesi, l’approccio degli OHT – acronimo di “Office for a Human Theatre”-, che, partendo dalle teorie del sociologo Richard Sennett, ne forniscono una propria rivisitazione teatrale.
La prima delle due proposte, “Autoritratto con due amici”, ad esempio, è ambientata nello studio di Adrian, sorta di locale hobby, in cui sembrano regnare confusione e anarchia creativa. Di fatto, invece, ciascuno degli oggetti e delle scritte sul muro ha sua una collocazione e giustificazione semantica ben precisa. Il rigo di pentagramma è quello del “Guglielmo Tell”, che risuonerà poi in un momento topico. Dalla parte opposta del palco, la poesia scarabocchiata sul muro parla del bisogno di avere amici – l’oggetto, in fondo di questo “autoritratto” – così come frutto di un’attenzione dettagliata e millimetrica è il resto dell’oggettistica. Le ruote di bicicletta o gli altri oggetti di riciclo, ad esempio, si riveleranno la materia prima di inaspettate opere d’arte contemporanea. Fa sorridere, ma ha una sua assoluta coerenza interna, il fatto che, per mostrarle a Patrik, Adrian tracci un’ideale linea si sicurezza con un non casuale e very street nastro stradale rosso e bianco. E questo arriva: a livello subliminale, anzi tutto.
Del resto, c’è tutto il tempo per osservare ciò che ingombra la stanza, dato che l’incipit è giocato sulle voci fuori scena, meccaniche e gracchianti, dei due protagonisti che comunicano via walkman. Parlano del bisogno di catarsi e poi si rintanano in questo non-luogo di protezione, dove si consuma il loro piccolo, surreale e ironico dramma con effetti speciali tanto casalinghi ed improbabili quanto, per ciò stesso, comici. E’ la sconfitta – edulcorata, negata e alla fine ribaltata. E’ l’opportunità, che sembra invece premiare chi meno tenacemente la persegue e che rende noioso e, alla fine, sconfitto, chi si accanisce a volerla ad ogni costo. Tutto sembra volgersi nel gusto sottile della burla: dai foglietti giocosamente colorati dell’ “I’ts ok. Don’t mind” allo stizzito atto di resa di Patrick che, come i ragazzetti di tanti film americani, si ritrova a scriverlo per più volte sul muro-lavagna, il suo “I promise”, fino al prologo ancora una volta surreale e al limite del non-sense, che certo fa sorridere in modo beffardo e sottilmente catartico.
Il secondo spettacolo, “Debolezze”, è in qualche modo l’ideale prosecuzione del precedente, quanto meno perché collocato in quella Parigi, dov’è stato chiamato a lavorare Patrik. Di più: ne segna una sorta di escalation. Da un contesto privato si passa ad uno di condivisione pubblica – un campetto da pallacanestro abusivamente frequentato, notte tempo, dallo stesso Patrik e da altre figure al limite del reale. Dal tabù del fallimento si travalica in quello egualmente inammissibile della perfezione: statica e per ciò stesso egualmente non auspicabile. A raccontarcela, la stessa modalità surreale, ironica, estraniante – e, alla fine, sì, probabilmente ancora una volta catartica -, che è cifra del gruppo. Cavalcano tutta una serie di spassosi luoghi comuni e riferimenti pop – dal rituale dello spinello a quello della nomenclatura numerica dei take away cinesi, fino all’ambivalenza della liason nella celeberrima coppia Batman e Robin, moltiplicati, potenzialmente all’infinito, in una serialità alla Andy Warhol, sotto l’influsso dei fumi delle sostenze psicotrope.
Non mancano le occasioni per cercare degli affondi di tipo sociologico, “human” e “politico”, pur attraverso un ribaltamento parodistico. “This ain’t street art – scarabocchia con la bomboletta Patrik nonoappena penetrato nel campetto -. It’s radical vandalism”, alzando la palla al successivo e invece demential politically correct: “Più genitori ricchi per tutti”, scritto da Sara nell’ “Espace libre” eppure già occupato dal sarcastico scarabocchio “Talent io (so) cheap”. E continua così, fra arguzie, ironia e l’ostentazione di una demenzialità che non può non sortire il riso, sciorinando imbeccate di citazioni destabilizzanti – da quel “Mao”, che è fu lo statista cinese, ma poi anche il verso del gattopardo con riferimento alla politica immobilista del romanzo di Tomasi Di Lampedusa; dal verso brechtiano di “Difetti tu non ne avevi, io ne avevo uno: amavo”, per tornare, con ribaltamento esistenziale, sulla tematica della perfezione, fino all’apparente banalità che ricorda: “Ogni persona può essere un super eroe, ma ogni supereroe è una persona.
Quindi ricorda che il male che si tollera è proporzionale al bene, che si desidera e che le nostre debolezze sono il piedistallo della nostra tolleranza”. Parole importanti, specie in questi ultimi giorni, che ancora riecheggiano in un finale, che potrebbe sembrare un laboriosissimo zero, se non se ne fosse in qualche modo fatto tesoro.
E’ la banalità del male, quello a cui si accenna, al di sotto di una cortina di performance e ironico non senso? E’ la voglia d’interrogarsi sui cortocircuiti, a cui ci espone la società dei nostri giorni pur senza apparentemente più offrirci validi appigli, su cui edificare una strutturata pars construens?
Sicuramente un tipo di fruizione e di approccio non da tutti; una modalità che certo può essere letta e fruita a livelli differenti – alcuni ridevano, in sala, sicuramente colpiti dalla comicità delle situazioni, altri sorridevano, in modo più sottile, cogliendo una certa affinata ironia e altri ancora sono rimasti quasi distaccati, cercandone di cogliere un senso più profondo… Poi tocca capire quale target di pubblico possa essere interessato a tal genere di modalità forse non ancora così diffusa nel modo più trasversale d’intendere il teatro.
Visto al CTR di Milano il 12 Novembre 2015
AUTORITRATTO con due amici
di OHT | Office for a Human Theatre
idea, regia e scenografia Filippo Andreatta
di e con Charles Adrian Gillott, Patric Schott
DEBOLEZZE
di OHT | Office for a Human Theatre
idea, regia, scenografia di Filippo Andreatta
di e con Sara Rosa Losilla, Francesco Napoli, Patric Schott
drammaturgia di Filippo Andreatta e Charles Adrian Gillott
capo macchinista Giovanni Marocco
brano “Take off that dress for me” di Micah P. Hinson
squares do not (normally) appear in nature
di OHT | Office for a Human Theatre
con il sostegno di The Josef and Anni Albers Foundation, Bethany (CT), USA
idea e regia Filippo Andreatta
ricerca scientifica Chiara Spangaro
movimenti meccanici e meraviglia Paola Villani
scenografia Filippo Andreatta e Paola Villani
musica di scena Roberto Rettura