BARI – La Compagnia Fibre Parallele compie dieci anni di attività sulle scene e per festeggiare la sua carriera artistica presenta una vera e propria maratona teatrale dal 12 al 24 gennaio, riproponendo sei titoli del loro repertorio. Licia Lanera e Riccardo Spagnuolo (insieme a vari attori che compongono i diversi cast) presentano di seguito le drammaturgie che sono state anche oggetti di premi e di riconoscimenti da parte della critica. Il programma: Teatro Abeliano martedi 12 e mercoledì 13 gennaio lo spettacolo Mangiami l’anima e poi sputala. Giovedi 14 e venerdì 15 gennaio lo spettacolo Due; sabato 16 e domenica 17 gennaio lo spettacolo Furie de Sanghe. Al Teatro Kismet vanno in scena gli spettacoli Have I None (martedì 19 e mercoledì 20), Duramadre ( giovedì 21 e venerdì 22 gennaio) e Lo splendore dei supplizi (sabato 23 e domenica 24 gennaio).
Mangiami l’anima e poi sputala è ispirato dal romanzo omonimo di Giovanna Furio Selezione Premio Scenario 2007, scritto e interpretato da Licia Lanera e Riccardo Spagnulo. “Gesù ha sofferto le carni della donna e dell’uomo e sa benissimo che il desiderio e il piacere sono alla base della creazione. Quindi la donna sarà il frumento della sua casa, quindi la donna sarà il pane quotidiano, quindi la donna sarà il male e la pietà del male, il bene e la pietà del bene. Quindi la donna avrà in sè tutte le contraddizioni care a Gesù: la tenerezza e l’oblio, la condanna e l’assoluzione, il parto e il figlio, la luce e la tenebra.” Alda Merini.
La donna, il femminile, avanza lentamente fino a rivelare il suo volto. L’uomo, il maschile, è appeso a un grande crocifisso, immobile, capelli lunghi e panno bianco. Aspetta. La preghiera di redenzione che innalza la donna fa compiere il miracolo inatteso: Cristo muove la sua testa fino a incontrare lo sguardo della disperata. Questo incontro, questo cortocircuito genera un’esplosione e una deframmentazione del concetto d’amore e di religione, di anima e di corpo, che si fronteggiano e si fondono in una grottesca storia d’amore e di purificazione. Cristo, uomo tra gli uomini, un extracomunitario del sentimento, offre il suo amore al grado zero, terreno, cioè il più semplice, ma incontra le resistenze e le barricate messe in piedi dalla donna, vincolata da una spiritualità dogmatica e restrittiva. Il racconto della storia, alterna estetica e comicità in un’atmosfera apparentemente ridanciana, ma in realtà cupa e tragica. A sugellare il tutto c’è una sorta di formulario del kitsch, che domina il senso religioso del sud, tra altarini-museo e riti personali, trasformando la scena in una discarica religiosa.
Furie de sanghe
Con Sara Bevilacqua, Corrado la Grasta, Licia Lanera, Riccardo Spagnulo Voce del Capitone: Demetrio Stratos
Furie de sanghe significa, in dialetto barese arcaico, emorragia cerebrale. Furie de sanghe è un pensiero, è un verme, anzi un capitone che cresce nella testa, diventa possente, si agita nervoso, cerca una via d’uscita. Furie de sanghe sono i cattivi pensieri, le fissazioni. Quando l’emorragia scoppia è sangue che si versa, è dolore, rumore, ammutinamento. Quella che vogliamo raccontare è una Bari, archetipica e infelice, un pezzo di terra che puzza di pesce andato a male e che si brutalizza per la sua ignoranza, che stupra l’umano con la sua violenza. Una famiglia di tre persone e un capitone. Arriva una nuora indesiderata e allo stesso tempo molto desiderata: è scompiglio, cattiveria, amplificazione della piccola violenza quotidiana. La lingua barese suggella il senso di aggressività: arriva sincopata, tagliente e prepotente in faccia alle persone, come uno sputo; sfonda ogni regola sociale, invade lo spazio, se lo ingoia e poi lo risputa con la stessa violenza di un colpo di mannaia. E’ la lingua che grida parole infami e che sussurra pettegolezzi, la lingua che mozza le parole: parole mutilate, parole spezzate, parole scomposte, parole sverginate. In una comunicazione primordiale, archetipo barbarico, crudele rito tribale.
Have I none non ne ho
di Edward Bond. Con Licia Lanera, Maria Luisa Longo, Riccardo Spagnulo
Have I none non ne ho non ho faccia non ho storia non ho scelta. Sull’orlo del precipizio non hai scelta, l’unica azione possibile è saltare nel vuoto. Se il mondo sprofonda e se questa non è più vita, saltare nel vuoto ancora una volta. Consumare per esistere, ma quanto durerà? Nel 2077 di Have I none, l’evoluzione del capitalismo è un mondo dove vita e morte si confondono, dove vivere è spegnersi lentamente, e decidere di morire è un atto di estrema vitalità. La vita morta e la morte viva. Dove il passato è stato abolito. Dove non c’è più posto neanche per la memoria personale. In questo mondo, in cui sembra non esserci scelta, tocca prendere la responsabilità di saltare nel vuoto. Have I none è una tragedia in cui la vita è un giocattolo rotto. L’ abbiamo messa in scena, ci siamo messi dentro la scena, messi, buttati, nel 2077, con un salto nel vuoto. Siamo altro da noi, sembra che qualcun’altro si sia messo al nostro posto, ma siamo sempre noi, soltanto noi. Non abbiamo altro che le nostre vite. Questo abitare è un nuovo tassello che ci aiuta a parlare di un futuro senza futuro.
Due (2)
Con Licia Lanera
In una piccola stanza bianca c’è una donna dalle profonde occhiaie e dai capelli rossi. E’ vestita di bianco e cammina su dei tacchi alti. A metà tra un’infermiera e il vestito della prima comunione. Confinata tra quattro pareti, in uno spazio immaginario, della mente, c’è quello che rimane della vita di una donna, la cui storia d’amore è finita con un addio. Lui l’ha lasciata per un altro uomo, lei lo ammazza. E’ un ritorno al massacro, in cui la narrazione si fonde con l’azione scenica e il bianco della purezza e dell’infermità si confonde con il nero della cronaca. Il rosso sta per il sangue. Il vero racconto riguarda un momento, quello del forchettone che la donna pianta nel collo dell’amato, senza pietà alcuna: inizia così la lotta esasperata tra la vita e la morte, che si conclude con l’annientamento finale. Lei non risparmia un dettaglio dell’assassinio; con brutale lucidità ricostruisce le sensazioni, le immagini, i respiri agonizzanti della vittima, le sue ultime forze, gli occhi vitrei. La recitazione è abolita: il testo, scomposto e sincopato, viene trasmesso dall’attrice attraverso una robotica sonnolenza, algida e asettica. L’uso del microfono rende ancora più dichiarato questo straniamento. Una sorta di incubo splatter costruito sui brutali racconti di noti assassini, uno fra tutti Luigi Chiatti. Ci ha colpito la loro lucidità nel raccontare degli eventi così gravi, la loro leggerezza, l’inconsapevolezza infantile, di fronte agli occhi attoniti dei parenti delle vittime. E’ l’inquietante straniamento di chi ragione non ha. E’ il muto grido di chi ha perso se stesso nella sua follia.