MODENA – Claudio Longhi è docente di Storia della regia e Istituzioni di regia all’Università di Bologna, regista di importanti spettacoli tra cui La resistibile ascesa di Arturo Ui (2011) e Il ratto d’Europa (2012-13) vincitore del Premio Ubu 2013, firma Istruzioni per non morire in pace: Patrimoni, Rivoluzioni, Teatro. Lo spettacolo nasce dal progetto annuale Carissimi Padri… Almanacchi della Grande Pace (1900-1915) attivato su tutto il territorio di Modena e provincia e volto a interrogare il pubblico-cittadino sulle ragioni che hanno condotto il mondo e, in particolare, il nostro Paese al disastro della Grande Guerra. L’esito finale del progetto è un allestimento della durata complessiva di circa nove ore, che ha debuttato nelle sue tre parti distinte e complementari il 7 gennaio 2016 al Teatro Storchi di Modena. Si è scelto di intervistare il regista Claudio Longhi per far conoscere la sua filosofia e visione registica di quest’opera che potremmo definire “apocalittica”.
Lo spettacolo nasce dal progetto Carissimi Padri che, dal gennaio 2015, ha coinvolto la comunità di Modena e provincia grazie alla formula di “teatro partecipato”. Molti degli eventi sono avvenuti nelle piazze e nei locali pubblici o presso enti privati. Perché, alla fine di questo percorso, si è scelto di mettere in scena l’esito conclusivo in un teatro all’italiana qual è il Teatro Storchi di Modena?
<<Il progetto nasce dal desiderio di riporre il teatro al centro di una comunità. Proprio per questa ragione è importante che esca dal proprio luogo ma è anche necessario che vi ritorni. I teatri all’italiana sono la testimonianza di come, per molto tempo, siano stati luogo di ritrovo di una società. Questi diagrammi sociali non riproducono le dinamiche della società di oggi, ma nell’immaginario collettivo, continuano a rappresentare “il teatro”. Era importante che dopo avere viaggiato, per mesi, attraverso il territorio, la città si ritrovasse in uno di questo luoghi.>>
La Belle Époque, periodo in cui è incentrata la mise en scène, godeva di una grande stabilità economica anche se il prezzo da pagare non usciva certo dalle tasche della borghesia. Possiamo contrapporre il proletariato operaio e contadino dell’epoca ante-guerra ai “lavoratori” di oggi?
<<Il progetto Carissimi Padri nasce dalla volontà di raccontare gli anni che hanno anticipato la Grande Guerra con l’intento di far riflettere sull’oggi per cercare di evidenziare dei parallelismi con quello che sta accadendo al fine di evitare che certi errori, letteralmente fatali, possano ripetersi. Alla base di questo, esiste la convinzione di una uniformità sostanziale tra quanto è accaduto in quegli anni e quanto sta succedendo oggi: è un modo per guardarci allo specchio. Tuttavia, quando ci si guarda l’immagine riflessa è distorta. La condizione proletaria dei primi dell’Ottocento e i primi del Novecento non può essere frapposta, in assoluto, a quella di oggi. Ci sono degli aspetti di parallelismo e degli elementi che ritornano. Come ha sempre sostenuto Sanguineti, ed io mi trovo molto d’accordo con questo pensiero, la Storia è sempre una grande maestra di Rivoluzione perché ci insegna che le cose cambiano e se sono cambiate in passato allora possono continuare a cambiare anche nel nostro presente.>>
Per rappresentare la drammaticità della società e, in particolare, dei personaggi che hanno vissuto, in qualche modo, l’arrivo della Grande Guerra, gli attori – per tutto il tempo dello spettacolo – hanno indossato delle maschere: i camauri. Qual è la motivazione registica che sta al fondo di questa scelta?
<<Lo strumento dei camauri è stata una scelta dettata dalla necessità: avevamo otto attori e dovevano recitare un centinaio di ruoli e per consentire al pubblico di capire cosa stava succedendo era importante scolpire delle identità e fare in modo che, ogni volta, entrassero in scena delle persone diverse. A posteriori, ci siamo resi conto che questo strumento sarebbe stato utile per restituire un senso ideologico all’operazione di raccontare la mostruosità della guerra. Nessuno è stato innocente in quegli anni, tutti hanno partecipato all’ecatombe del conflitto, e come dice Kraus “personaggi da operetta si sono trovati a raccontare la tragedia dell’umanità”. Bisognava tirare fuori questo appiattimento dei personaggi che non hanno rotondità e spessore ma sono vere e proprie maschere grottesche.>>
Allo strumento del camauro si aggiunge la scelta del Varietà o del Cabaret – in Italia fu l’avanspettacolo proprio negli anni della Belle Époque. Com’è stata affrontata la scelta sul genere?
<<L’obiettivo è stato quello di ricreare una macchina drammaturgica centrata essenzialmente sul Varietà, proprio perché questo genere consente di lanciare uno sguardo comico sulla realtà. Ritenevo che questo accadesse non tanto per burla o per suscitare del ridicolo visto che erano anni terribili, ma per rendere conto della portata drammatica del periodo. Il filtro comico demitizza, permette di essere realistico, di raccontare le cose come stanno, senza giustificazioni ideologiche, sublimazioni o riscatti emotivi. La strada maestra al realismo è la commedia. Proprio a questo proposito, mi sono sempre trovato a citare un’opera di Brecht in cui sostiene che “la tragedia, molto spesso, più della commedia prende alla leggera le sofferenze dell’umanità”. La tragedia, al contrario della commedia, alleggerisce, ma se rifacessi mente alla nostra tradizione mi verrebbe da dire che, prima ancora di questo drammaturgo queste cose le ha scritte Dante quando ha scelto di scrivere una Commedia e non una tragedia per rendere conto della complessità della realtà.>>
Per farci un’idea del lavoro di ensemble, chiediamo ad alcuni attori com’è stata l’esperienza dei ruoli (maschere) che si sono trovati ad interpretare. Ciascuno di loro interpreta un ruolo principale strettamente connesso alla trama della trilogia, sia personaggi storici oltre che inventati.
Lino Guanciale: <<Il mio ruolo principale è Lelo Gottardi, uno dei figli della famiglia Gottardi, ricchi industriali che si danno alla fabbricazione d’armi. Berto (interpretato da Simone Tangolo) è l’altro rampollo maschio, è un pittore che se ne va a Parigi per seguire le “derive” delle avanguardie nascenti. Lelo, invece, è un attore che va a Vienna, patria del teatro di quegli anni. Fa la sua discreta fortuna fino a quando non arriva la guerra che lo costringe a tornare in Italia. Il Paese del 1914-15 è diviso e ciò si riflette nei rapporti familiari. L’aspetto interessante di questa trama familiare è questo gioco tra i conflitti macro-storici e quelli micro-storici, privati, che abbiamo cercato di costruire insieme a Paolo Di Paolo. Sebbene Lelo non voglia la guerra, alla fine vi prenderà parte – come molti giovani dell’epoca – e nel parteciparvi perderà tutto. La famiglia, il lavoro, l’identità, ma soprattutto la salute mentale.
Uno di quei reduci di cui si perdono le tracce che finiscono negli ospedali da campo. È di quelli che non tornano a casa o almeno lo spettacolo si chiude con la sua dispersione. La perdita del senno di Lelo è in qualche modo figura della fine di un’epoca, quella del mondo di ieri, come la definisce Stefan Zweig. In questo, credo sia uno dei personaggi portatori di questo messaggio, ossia di come il 1914-15 sia significato una chiusura, una soglia irrevocabile, per l’occidente ma non solo e per l’umanità intera.
Tra i personaggi storici, interpreto Freud, il lume della costruzione di Istruzioni per non morire in pace che Paolo Di Paolo, ha costruito a partire da quest’ottica psicanalitica. Il testo però ha anche un’anima bipolare. Il riferimento opposto, infatti, è Karl Krauss con il suo grande modello drammaturgico, Gli ultimi giorni dell’umanità: un grande affresco complesso di tante schegge del mondo di ieri. Freud è una figura un po’ divertita, perciò ho cercato di renderla nella maniera più leggera possibile con un gioco di parodie che innerva tutta quanta la messa in scena. È uno dei polmoni concettuali della costruzione del testo e dello spettacolo.>>
Michele Dell’Utri: <<Io interpreto Fernando Gottardi, trasfigurazione teatrale del membro di una famiglia realmente esistita che ha svolto un ruolo importante, a livello industriale, prima e durante la Prima Guerra Mondiale. Si tratta dei “fratelli Perrone” che avevano preso in mano l’Ansaldo, un’acciaieria vede nella Guerra una grande occasione di profitto. Per far capire la portata del loro intervento bellico, basti sapere che hanno prodotto il 45% degli armamenti bellici all’Italia. Fernando è strettamente connesso al fratello, Marcello. I due sono sempre insieme, e io trasmetto una vera e propria filosofia che possiamo risolvere nella definizione: “Produrre bottoni o produrre cannoni è un po’ la stessa cosa”. A un certo punto, Fernando s’interroga: “Noi stiamo facendo una guerra, secondo me, sbagliata”, e chiede al fratello: “Scusami, ma noi da che parte stiamo? Stiamo per gli italiani o per i turchi?”. La risposta è: “Costruiamo navi per gli italiani e le ripariamo ai turchi. Quindi lavoriamo per tutti e due e lavoriamo per i soldi”. È questo il messaggio che viene fuori.
Con un personaggio così nettamente segnato, privo di dubbi e un po’ sciocco, rispetto a Marcello, insieme a Claudio si è pensato di definire un mio giudizio di condanna sul personaggio. In questo caso la possibilità di caricarlo è un preciso gesto di consapevolezza da attore nei confronti del ruolo stesso.
Chiaramente il nostro – con l’umiltà e le dovute specifiche – è un approccio brechtiano nel senso che non è inconsapevole né libero da giudizio rispetto a quello che sta raccontando. Gli altri personaggi che interpreto, rappresentano dei mondi: l’Uomo di Chiesa, portatore di una visione cattolica caricaturale e ironica; il Critico, Alfred Kerr, che nel secondo quadro spende giudizi su quello che vede, e altri. Per raccontare tutto questo, è vero che abbiamo utilizzato i camauri, ma sono serviti anche dei colori molto a contrasto tra un personaggio e l’altro. Se Fernando impone un colore dominante, gli altri dovevano avere un colore più plausibile, nettamente diverso e, al contempo, coerente con il racconto e il mondo che è stato portato in scena>>.
Simone Tangolo: <<Ci sono due elementi, strettamente correlati, che ritornano nella trilogia, rappresentati anche scenicamente attraverso degli orologi, e sono: il “tempo” e il “futuro”. Il mio personaggio è Umberto Gottardi (detto Berto) assolutamente contrario alla guerra. Subisce la trasformazione in interventista. Non si conosce il destino di questo personaggio fino a quando non si arruola. Legge La metamorfosi e, infatti, nel terzo capitolo si parla di lui attraverso questo libro proprio per raccontare la sua trasformazione totale da ragazzo contrario alla guerra che, sprovvisto di prospettive concrete e in balia degli eventi, si arruola all’esercito. Un gesto che considera come unico futuro possibile per trovare una certa ragione di vita. Un finale chiaramente tragico ma vero che si può riallacciare alla realtà di oggi. Pensiamo semplicemente ad un giovane terrorista che decide di sacrificare la propria vita per qualcosa che ritiene giusto – forse sto esagerando o azzardando delle affermazioni forti – ma è un parallelismo molto vivo con il presente. Non credo che i personaggi trasmettano dei messaggi ma siano portatori di dubbi e domande. Di fatto le loro vite sono incompiute e attraverso la loro incompiutezza, il disorientamento totale di centocinquant’anni fa, rappresentano la confusione che può avere un giovane oggi nei confronti della situazione politica, sociale ed economica>>.