MILANO – Shakespeare free, così a Bruno Fornasari e Tommaso Amadio, direttori artistici del Teatro Filodrammatici di Milano, piace definire la loro Stagione. E, nel quattrocentenario della morte del Bardo, scelgono di continuare a non metterne in scena le pièce, per incarne invece la lezione e lo spirito. Come lui vogliono raccontare storie e intrattenere in modo intelligente, così da mostrare, prove alla mano, come questo non sia un connubio impossibile. Fra i titoli in cartellone, “Parassiti fotonici” di Philip Ridley centra perfettamente il bersaglio. Lo fa perché non perde mai lo smalto e la leggerezza della commedia noir e in perfetto stile british; lo fa perché mette in scena questioni assolutamente attuali e con un linguaggio e delle soluzioni drammaturgiche perfettamente attinenti all’oggi, e in fine lo fa perché è impossibile non vedere, in contro luce ai personaggi, le ambizioni di Lady Macbeth e i moventi del consorte, i fantasmi della colpa a deformarne la percezione e le apparentemente innocenti macchinazioni di Iago. Anche se poi tutto questo puntualmente si stempera, virando dalla china grumosa del dramma, col colpo di coda agile di una nuova boutade, che mantiene nel registro brillante della commedia. Debuttato nello scorso marzo a Londra, di “Parassiti fotonici” Fornasari/Amadio ne fanno subito una loro produzione, curandone, il primo, traduzione e regia, indossandone, l’altro, i panni del protagonista.
Il tema è quello, scottante, della ricerca di un alloggio, e se lo sappiamo tutti, quanto sia un problema annoso anche da noi, capendo come ancor più lo diventi in un Paese, in cui i mutui possono durare fino a 120 anni, ricadendo, come una maledizione, di padre in figlio. Così a Liverpool e in particolare nel depresso quartiere di Granby, a questo s’ispira la trama, la sfida dell’amministrazione è stata quella di vendere alloggi dismessi al simbolico prezzo di una sterlina, a condizione che i nuovi inquilini l’acquistassero come casa esclusiva, assumendosene l’onore di ristrutturazione. In questa cornice sociale Philip Ridley, artista eclettico, il cui lavoro spazia dalla pittura alla scrittura anche per l’infanzia, declinandosi nell’impegno di sceneggiatore, autore teatrale e cineasta, immagina ed ambienta la sua commedia dark, colorandola di tinte fantasy e pennellandola in un gioco di battute pungenti e serrate, ben restituite dalla trasposizione italiana. Non è solo il: “Cosa saresti disposto a fare per il futuro di tuo figlio?” – essere coppie con figli, nella finzione scenica come nella realtà, risultava titolo preferenziale per l’assegnazione. Quel che si va a scatenare, qui, è quella smodata ambizione, prima ancora che sete di possesso, per cui Jill e Ollie, giovane coppia con nascituro a carico, non solo comprensibilmente desiderano il meglio per il loro bambino, ma, una volta innescato l’ingranaggio, ne vogliono sempre di più, pur di mantenere la loro “rispettabilità” sociale.
Così in un palco/bomboniera vuoto e delineato solo dal suggestivo gioco delle luci e da minuziose scenografie/cartonati, quasi ideali cataloghi dei desideri e al tempo stesso pareti di una vittoriana casa di bambola, ecco una coppia di giovani. Dialogano col pubblico sul sottile gioco degli “a parte”. Con tono graffiante e ritmo incalzante, raccontano e ricostruiscono la loro vicenda assurda e sempre più politicaly scorrect attorno al solo simbolico divano bianco, talismano e feticcio di tante produzioni dei Filodrammatici; mimano ed evocano tutto quello che all’epoca effettivamente non avevano, quasi a restituircene la mancanza. Sanno offrircela benissimo, la loro storia, con tutta la vivacità e l’arguzia del caso, invitandoci, se non al giudizio, quanto meno all’interazione e all’esercizio critico. Impossibile non amarli, questi Ollie e Jill, che entrano in scena con tanto di fantoccio dormiente. Due “bravi ragazzi” dalle fisionomie caricaturali: magrissima, lei, quasi un’Olivia con tanto di vestitino sottile, calzamaglia arancione e improbabile cerchietto bardato di fiori e longilineo pure lui. Le tipiche brave persone, forse pure un poco anonimi ed insignificanti, conosciutisi in chiesa ed entrambi figli di famiglie disastrate. I classici tipi, che sembrano essersi lasciati tutto alle spalle. Eppure la storia dimostra che basta poco. Basta la lusinga di un diavolo tentatore, Mrs Dee, qui interpretata da una Elisabetta Torlasco dalle godibili note istrioniche, per trasformare due ragazzi dai sani principi in potenziali serial killer, privi di scrupoli o quanto meno pronti all’auto assoluzione, in nome del fatto che: “Non lo avreste fatto pure voi?”, sembrano rigettare, angelici, sul pubblico.
Certo un testo ben scritto, in modo ironico, sarcastico, comico, grottesco, caricaturale e brillante; ma poi pure una traduzione impegnata nel restituirne i bisticci di parola, gli equivoci e il ritmo sincopato dei periodi, così da poterli scandire con quella velocità che è propria della battuta,quando non hai tempo di ragionarci sopra, ma ti scatta solo il corto circuito della risata. Ma, certo non ultimo, perché tutto questo marchingegno vada a segno sono necessari degli interpreti all’altezza di uno sforzo mnemonico, performativo e attoriale, in grado di farcene arrivare solo la leggerezza e la godibilità. In questo senso bravissimi, oltre alla protagonista femminile anche Tommaso Amadio e, soprattutto, Federica Castellini, la cui tavolozza di colori emotivi affianca alla capacità tecnica pure un quid di estraniato, istrionico e surreale e una generosità emotiva strabiliante nel non risparmiarsi davanti ai picchi e alle rovinose discese delle montagne russe della mente di una Lady Macbeth, che neppure il rimorso sa soggiogare.
Quel che stupisce, in fine, è la tenuta del medesimo registro brillante anche nei momenti, in cui la trama avrebbe forse potuto virare verso un altro colore. Eppure la scelta registica di non desistere sortisce un effetto estraniante, coerente con una trama in fondo fantasiosa, a cui non interessa spiegarci le cose. “Come fa, la signorina Dee, a sapere tante cose sulla vita presente e passata dei giovani?”, non sembra chiederselo nessuno. Ed è proprio questa sospensione logica, che, mentre cattura ad una disposizione più empatica, diverte, appunto e intrattiene, a quel livello meta razionale, in cui giocava in casa, talvolta, pure il Bardo.
Visto al Teatro Filodrammatici di Milano, venerdì 5 febbraio.