MILANO – Ultimo della trilogia pirandelliana del “Teatro nel teatro”, “Stasera si recita a soggetto”, di Luigi Pirandello per la regia di Federico Tiezzi, al Piccolo Teatro di Milano fino al 24 marzo, affronta il complicato e delicato tema dei rapporti sul palco. In controluce, tutte quelle dinamiche di “potere”, in cui chi dirige fluttua, fra responsabilità e narcisismo, e, chi è diretto, in parte subisce e in parte mal tollera, in un comprensibile anelito di autodeterminazione. La storia è quella di un ammutinamento: una compagnia di attori chiamati a mettere in scena la “Leonora, addio!” dello stesso Pirandello e tutta l’insofferenza nei confronti di un “direttore”, che sembra una sorta di mutazione 2.0 del vecchio e forse superato “capocomico”. Feroci mutanti, non di meno, sono pure gli attori/personaggi, che si sceglie di chiamare coi loro cognomi reali, anche, oltre a fare propri i nomi e i ruoli degli interpreti della trama. Ci vengono presentati con profetici ed inquietanti testoni da caimano; una passerella sferzante fra il nero di un Sitz-im-leben, che sembra ininfluente determinare nel suo hic-et-nunc, e quegli sbrechi di una luce così pura e accecante da rivelarne la natura mordace nella più impietosa delle maniere.
E’ perfettamente (intel)leggibile, questo, nella direzione di Tiezzi, che decide di affidare la parte dell’istrionico e quasi delirante “Direttore”/Dottor Hinkfuss a un Luigi Lo Cascio in vena di sostenerne le umoralità; lo fa con misura, di contro alle parti decisamente più caratterizzate dei suoi mediterranei compagni di palco. Eppure in tedesco, lingua madre, ricordiamolo – della partitura originale – , sarebbe suonato nell’ancor più inquietante “Herr Doktor Hinkfuss”. Aleggia lo spettro da “scienziato pazzo”, specie in quella sorta di prologo, in cui, copione, anzi, novella alla mano, in una sorta di pur compassato e del tutto mitteleuropeo impeto, il forse non ancora del tutto consapevole “regista”/personaggio indugia sulla differenza fra la fissità replicabile della poesia e l’effimera unicità dell’evento teatrale, arrancando su e giù per una lavagna le cui dimensioni accademiche, significano l’enormità della questione, forse più per soddisfare esigenze di pura visibilità scenica.
“Il mondo è tutto ciò che accade”, questa, la massima wittengensteiniana d’incipit. E ancora: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, stessa paternità, ma a fine spettacolo. Nel mezzo, proprio quel mondo – unico, irripetibile – che è il teatro, specie quello in cui si reciti a soggetto, senza parti, cioè, o azioni prefissate. Uno scontro ideologico, culturale. La bordata di un modo di far teatro proveniente dal melodramma, dalla lirica e dalla commedia dell’arte, coi suoi canovacci, sì, ma poi animati da farse, frizzi, lazzi e improvvisazioni affidate alla maestria dell’attore in scena, contro uno del tutto antitetico, che pretendeva di fissare, una volta e per tutte, nel rigorismo di una partitura inderogabile, le entrate, le uscite, le intenzioni, gli accenti e pure i respiri di attori (super)marionette ante litteram nelle mani di questo nuovo e delirante demiurgo. Siamo nel 1929, ricordiamolo, e il drammaturgo è l’italianissimo, ancorché naturalizzato tedesco, Luigi Pirandello. Anno, sì, funesto per l’economia mondiale, ma non meno per quel malcontento che sarebbe stato cavalcato da uno dei peggiori totalitarismi del ventesimo secolo. Ed ecco che riaffiora il braccio di ferro dei rapporti di potere.
Con un testo così, “inattuale”, per l’epoca, nel senso predittivo in cui lo intende Nietzsche, è difficile sbagliare. Tiezzi sceglie di portarlo in scena attraverso un allestimento raffinato ed essenziale, in cui ai pochi ma ben studiati oggetti fanno da contraltare un uso sapiente eppur freddamente emozionale dei tagli di luce, dei bui e delle aperture sulla sala. E’ la sorpresa dell’irrompere della vita nel teatro e viceversa, in un costante fraseggio e palleggio fra finzione e realtà. Così se l’incipit, da copione, è di un’azione drammaturgica giocata dagli spalti e la regia della processione è così fortemente evocata dal direttore, da concretizzarsi in platea, in barba ai vecchi cliché evocati da modernistiche immagini in bianco e nero da cinematografo, poi gli attori hanno però bisogno di rivendicarsela, quella “quarta parete”, di cui ancora sembrano non poter fare a meno. “Qui è muro, qui è muro, qui è muro, qui è muro”, a delimitare quell’artificio, che ne “Il berretto a sonagli”, uno per tutti, Pirandello rivendicava come sola possibilità per sopravvivere a una realtà insopportabile. Tornano i topoi pirandelliani. La gelosia come malattia tanto deprecabile quanto divorante, il così è se vi pare di un fine forse non per forza lieto, ma reale e dunque razionale, parafrasando Kant, la ricerca di un “autore”, che è un’altra variabile di quel sottile legame doppio, che unisce vittima e carnefice, attore e maschera, amante e amato, personaggio e attore, finzione e realtà. Tutto questo affiora bene dal confezionamento di Tiezzi, equilibrato e assolutamente fedele alla parola pirandelliana, fin nelle sonorità. Alla pulizia della cornice fanno da contrappunto costumi e personaggi volutamente chiozzotti e coloratissimi, declinati nelle variabili dei differenti generi teatrali.
Il temperamentoso (un Francesco Colella coprotagonista e generoso nel sostenere il ruolo di primo attore anche nel gioco del “teatro nel teatro”), la prima attrice (Mommina/Sandra Toffolatti come sempre intensa e ineccepibile), i due personaggi farseschi (Francesca Ciocchetti, una Generala gustosa e accattivante e l’esilarante Massimo Verdastro, il cui personaggio brillante non è mancato all’appuntamento neppure nel momento in cui si è trattato di suscitare compassione, se non proprio commozione), la sciantosa (Elena Ghiaurov, violacea personificazione del melodramma da feuilleton d’antan) e poi tutti gli altri. Rapporti di potere, sì, ma anche un viaggio nel teatro e nella sua grammatica. La possibilità di dare una sbirciatina al dietro le quinte – al back stage, come si direbbe oggi -, offerta a quel pubblico di non addetti ai lavori, che difficilmente ne avrebbe avuto l’occasione, all’epoca. Eppure fatto ad arte – è la lunghissima diatriba fra gli attori e il “direttore” nel costante asintoto, fra capitolazione e sottrazione, del come tu mi vuoi. Viene spontaneo pensare che anche oggi, in questo mondo in cui tutto è social, condivisione e on line, le paure e le modalità delle relazioni interpersonali non sono poi così differenti, da non smascherare la presenza di un sempiterno burattinaio, un moderno “grande fratello” che non smetta mai d’ingrassarci col suo occhio attento. Quanto sa di Sartre, tutto questo…
“Questa sera si recita a soggetto”, visto al Piccolo Teatro di Milano il 16 febbraio 2016.