La scelta editoriale di Rumor(s)cena, anche se non così frequentemente, è anche quella pubblicare dello stesso spettacolo più recensioni firmate da diversi collaboratori, offrendo ai lettori la possibilità di confrontare diverse opinioni, e analisi critiche derivanti dall’autonomia intellettuale di ciascuno. Una scelta che consenta un maggiore dialogo a più voci, come accade di consueto in un teatro tra spettatori al termine di una rappresentazione, dove ognuno esprime e difende il proprio giudizio in una dialettica anche vivace. Sono le opinioni a confronto che creano maggiore stimoli alla visione. Questo Candide ci permette di darne conto in due versioni distinte. Visto in serate diverse permettono una declinazione del giudizio che non si rincorre e non cerca similitudini o differenze sostanziali, quanto, invece, cerca di impegnarsi nel dare al lettore e agli artisti protagonisti, più spunti di riflessione; tenendo conto di come lo sguardo possa essere (e deve) il più oggettivo possibile, senza però ripudiare a priori la personale soggettività che ci caratterizza.
Candide
ROMA – Al Teatro Argentina è andato in scena di recente, per la regia di Fabrizio Arcuri, Candide di Mark Ravenhill, liberamente ispirato al Candide ou l’optimisme di Voltaire. La drammaturgia, infatti, non è un adattamento teatrale, piuttosto una scrittura originale, un remix come si può chiamare oggi, che prende a pretesto alcune disquisizioni volterriane per mostrare la vera faccia della società odierna. Di Voltaire rimane la confutazione delle dottrine ottimistiche, del “vivere nel migliore dei mondi possibili”, dell’essere ottimisti a tutti costi nonostante tutto e tutti. La critica all’ottimismo condotta da Voltaire si attesta su alti livelli, si scontra contro le dottrine di impronta metafisica e nel dettaglio contro la monadologia del filosofo tedesco Leibniz e contro il principio secondo il quale la divinità, nella scelta tra le infinite combinazioni di monadi possibili, prende quelle migliori per costruire il mondo. La critica altamente filosofica dell’autore francese si esplica mediante l’ausilio di personaggi e tragedie quotidiane, ma ricorrendo all’ausilio di un filo d’ironia così tagliente, tale da renderla ancora più aspra rispetto alle vicende narrate sul piano del livello visibile.
Anche Ravenhill cerca in qualche modo di imitare Voltaire ma in tante occasioni si perde, sprofondando inesorabilmente nella banalità, aprendosi a situazioni, considerazioni e motivazioni tipiche da social network, da talk show, da fiction, con una quasi totale assenza di ironia. Tutto viene mostrato apertamente senza nessun filtro che possa condurre alla riflessione, si nota l’assenza di una visione filosofica e a rimanere vi è solo il racconto di un “arrabbiato”. Fabrizio Arcuri con la sua regia segue il passo della scrittura, anche se cerca di allargarsi passando dalla visione critica del drammaturgo sulla società britannica, alla visione critica verso un’Europa, cui l’Italia sembra credere fermamente. La drammaturgia procede per alternanze temporali e da un lontano passato settecentesco si giunge dapprima al presente, per ritornare indietro e infine, per piombare, sul finire, in un ipotetico futuro. Nella prima scena, ambientata nel Settecento, Candide cerca disperatamente la sua amata Cunegonde. Si trova nel palazzo di una contessa di età avanzata dove spera di trovare in quel ragazzo il riscatto per una giovinezza ormai svanita.
Nel cuore, nella mente e soprattutto nelle parole di Candide, risuona però il nome Cunegonde, che come una lama ferisce la contessa. La donna prova in tutti i modi a conquistarlo fino all’ultimo tentativo: mettere in scena il diario dell’ospite davanti ai suoi occhi per mostrargli come la sua vita a palazzo sia migliore di quella precedente. La scena metateatrale appare così reale agli occhi di Candide che prima confonde se stesso con il suo doppio-attore e poi giunge a credere di aver trovato la donna desiderata nell’attrice che la impersona, quasi una premonizione della moltiplicazione o perdita d’identità ai tempi di Internet e dei social network. La messa in scena però non porta gli sperati frutti, perché se qualcosa ha colpito l’uomo è l’aver ricordato l’insegnamento del suo maestro Pangloss, che viviamo nel miglior mondo possibile, quindi è ancora possibile ritrovare la vera Cunegonde. Il regista veste i suoi personaggi con abiti d’epoca molto realistici, accostandoli a una scenografia, al contrario, allusiva, evocativa, composita, che si costruisce per accostamenti: un divano settecentesco su un praticabile, dei quadri d’epoca sospesi nell’aria, una straniante gradinata bianca e movibile che si adatta a diverse situazioni.
La seconda scena trasporta d’improvviso lo spettatore nella sua epoca.
È il giorno del compleanno di una giovane ragazza, Sophie. Tutto sembra preannunciare una grande festa e nell’aria sembra apparentemente esserci lo spirito d’ottimismo incarnato da Candide. Ben presto però la finta allegria e i finti sorrisi si tramutano in tragedia. Sophie, giovane disillusa del nostro tempo, arrabbiata contro chi le ha dato in eredità un mondo distrutto e deturpato, si arma di una pistola e stermina tutta la sua famiglia, eccetto la madre Sarah, che da quel momento vivrà quella tragedia senza potersi dare una valida spiegazione del perché sia avvenuta. Non è più l’epoca per essere ottimisti. In questa scena la banalità di certe situazioni e dialoghi emerge con più preponderanza, come il monologo della giovane assassina, in cui viene tirata in ballo la questione ambientalismo, un topic che sembra essere stato pescato a caso tra i tanti che potevano essere messi in gioco. E alla banalità di questo monologo non sopperisce neanche l’interpretazione sottotono dell’attrice. La critica al mondo odierno si attesta dunque su frasi tipiche da Facebook, link che si condividono freneticamente per dimostrare agli altri di possedere anche una coscienza etica senza in realtà capirne il senso. Arcuri costruisce concettualmente la scena con intenti da teatro naturalista, sebbene la scenografia, una scarna gabbia di listelli di legno, non lo sia. Rimane metaforicamente il principio della quarta parete: lo spettatore osserva quell’assurda vicenda famigliare come se la stesse spiando dal buco di una serratura.
La terza scena prosegue cronologicamente la seconda. Sarah, unica superstite della strage famigliare, ha cercato di superare il suo trauma, con l’aiuto di un’immancabile psico-terapeuta dei nostri giorni, redigendo un libro. il successo di tale scritto fa gola a un impresario cinematografico che, insieme a uno sceneggiatore, a Sarah e alla sua immancabile terapeuta, riscrivono più e più volte l’accaduto, storpiandolo continuamente con l’intento di spettacolarizzare l’evento drammatico, prassi comune dei vari salotti televisivi di cronaca nera. Le diverse versioni della sceneggiatura si intrecciano con il Candide di Voltaire, perché anche la scrittura cinematografica deve essere per la donna una via per recuperare l’ottimismo perso in seguito alla tragedia. Qui il regista utilizza una scenografia stilizzata, un grande pezzo di arredo bianco che ricorda i più recenti mobili Ikea e che rialza la scena rispetto al palcoscenico. Le azioni sono visibili attraverso due finestre, due fori che ricordano il cinetoscopio di Edison, una delle prime macchine che permetteva di vedere filmati attraverso un foro. La quarta scena si fa fatica a comprenderne il significato. Si ritorna nel Settecento. Candide si ritrova a Eldorado, un mondo perfetto e non contaminato ma allo stesso tempo opprimente. L’uomo decide quindi di ripartire alla ricerca di Cunegonde. A parte qualche gag e bizzarria nei costumi che può strappare un sorriso, non avviene nulla di rilevante. Una parentesi che nell’economia dello spettacolo poteva essere evitata, non aggiungendo o sottraendo nulla.
La quinta scena è ambientata in un ipotetico futuro, dove i personaggi delle due epoche precedenti si incontrano. Pangloss è diventato il direttore di una clinica che sta sperimentando di impiantare il gene dell’ottimismo nell’umanità. Sarah, dopo le tristi vicende della sua famiglia e il tentativo di recuperare l’ottimismo tramite la pratica liberatoria del cinema, va alla radice del problema: incontrare Candide, il quale, però, è deposto in una teca in stato di ibernazione. È il totem da adorare, quasi un santo-reliquia da esporre e trasportare in giro per il mondo per essere acclamato da migliaia di fedeli. Il lungo sonno viene interrotto da Sarah e una volta risvegliatosi l’uomo cerca ancora disperatamente la sua amata. Cunegonde, ormai vecchia e segnata dalle terribili vicissitudini della vita, compare alla sua vista reclamando un suo bacio. Personaggi vivi ma morti dentro, degli zombie che si aggirano ancora sulla terra alla ricerca di quell’ottimismo ormai svanito. La scena avviene tra la platea e il palcoscenico. Gli attori-scienziati si muovono tra gli spettatori presentando i loro ultimi ritrovati e mostrando le reliquie del santo Candide. Indossano dei costumi e delle parrucche posticci che rievocano film di fantascienza, una sorta di brutta imitazione di Blade Runner, ai limiti del trash. Il monologo finale di Cunegonde, che è avvolta in una bandiera dell’Europa e reclama un bacio da Candide, risulta esageratamente strillato. L’uso del microfono, l’eccessivo volume della voce e un’imperfetta e impastata enunciazione dell’attrice, infatti, rendono quasi incomprensibile il finale.
Un’Europa ridotta in macerie (Cunegonde) e un ottimismo disatteso, assente, ibernato (Candide) difficilmente potranno incontrarsi se non in un furtivo, forzato e imposto bacio che denota ancora di più il falso mito di vivere nel migliore dei mondi possibili che i diversi poteri cercano ancora oggi di instillare nei propri cittadini. Per assemblare le diverse sezioni di questa drammaturgia, per connettere le varie scene, la regia di Arcuri impiega magistralmente le potenzialità di H.E.R, cantante e violinista, che con i suoi interventi colora e caratterizza le varie atmosfere, passando da melodie dolci e soavi delle scene settecentesche a pezzi graffianti e rudi che connotano i passaggi più grevi e in particolare l’ultima. Se dunque la drammaturgia non sia così efficace, la regia e i costumi firmati da Fabrizio Arcuri, le scenografie di Andrea Simonetti e il disegno luci riescono a sopperire alle sue lacune, inserendo le banalità drammaturgiche del testo e i suoi luoghi comuni in un’atmosfera straniante e spiazzante, che visivamente incute il timore e il disagio di una società allo sbaraglio, che non riesce a trovare l’appiglio giusto per andare avanti se non fingendo che tutto vada bene.
Capita poi che dopo aver assistito a questa performance dal finale angosciante, si facciano degli incontri che invece ridestano la speranza e l’entusiasmo. Il timore di aver confuso la persona può frenare far desistere di avvicinarsi per evitare di commettere una gaffe. Invece, al Teatro Argentina, ad assistere al Candide c’era Franca Valeri. Con emozione e agitazione si prova a scambiare qualche parola e quell’incontro suscita forti emozioni. Uscendo dalla terza persona del critico si entra nella prima di semplice individuo per raccontare il fortuito e straordinario incontro con la celebre attrice. La ringrazio per l’immenso lavoro artistico che ha condotto nella sua carriera provando sincera ammirazione. Contemporaneamente il suo stupore si tramuta in commozione. Ci si rende conto di essere davanti un’icona dello spettacolo italiano e nei suoi occhi si poteva leggere amore e l’ umiltà di una grande diva che nella vita non si è mai comportata tale, nonostante le sue incredibili doti.
(Vincenzo Sansone)