GENOVA – La via negationis neoplatonica sembra essere l’unico processo, al momento, per spiegare la forma esperienziale che Imre Thormann ha portato in scena, durante il Festival Testimonianze ricerca azioni, ideato dal Teatro Akropolis di Genova. Impossibile da definire, si può solamente scrivere che non è danza, non è adesione a una forma prestabilita, non è sterile tecnica, non è soprattutto arte autoreferenziale. Il Butoh di Thormann (ogni performer ha il proprio, in quanto individualità irriducibile e separata) si discosta infatti da quello praticato da altri artisti – giapponesi e non, in quanto sembra risalire alle radici dello stesso. Recuperando la carica rivoluzionaria delle teorie artaudiane; riuscendo a incarnare (nella materia plastica e sanguigna di un corpo) quelli che finora sembravano concetti astratti – che il teatro agito era riuscito solo parzialmente a fare propri, nella pratica della scena.
Facciamo un passo indietro. Dopo avere assistito ad alcune forme di danze balinesi, Antonin Artaud comprese che l’uso della parola doveva essere evitato, in quanto gli attori avevano il compito di trasformarsi in quelli che lui stesso definiva “geroglifici animati”, la cui gestualità avrebbe risvegliato nello spettatore una risposta intuitiva. Le parole, infatti, limitate e limitanti, inadeguate a esprimere la vita interiore, culturalmente determinate e spesso fuorvianti, dovevano essere sostituite da altre forme di linguaggio, in grado di rivelare la “realtà archetipica”. La base del teatro della crudeltà diventava perciò l’energia creativa stessa, che rimandava forse e anche al dionisiaco nietzschiano, fino a identificarsi con il corpo. Un teatro, questo, che – come la peste – avrebbe liberato “poteri e possibilità oscure”, in grado di “portare alla luce… un fondo di crudeltà latente”. Perché il teatro, come avrebbe osservato acutamente anni dopo Carmelo Bene: se “non fa morti, … non sollecita crimini, delitti, sabotaggi, non può essere teatro, è spettacolo”.
E in questo solco, si situa il lavoro insieme emozionante e profondo di Imre Thormann intitolato Enduring Freedom parte da un’esigenza personale del performer. Trovare una soluzione, una via di fuga o un’alternativa, e dare una risposta a chi pretende di assicurare la libertà di un popolo, muovendogli guerra. Se Bush, in Afghanistan, ha dato il via a quella sequela infinita di bombardamenti, omicidi mirati, destabilizzazione di entità nazionali, mistificazioni del linguaggio che portano il nome di Guerra al terrore, Thormann non si ferma alla denuncia. Oltrepassa la sottile linea rossa che separa lucidità e follia, per vivere e respirare la sofferenza della vittima, che è parte del sé, in quanto siamo tutti esseri umani, accomunati dal medesimo corpo. E ognuno potrebbe fare proprie le parole di Shylock: “Se ci pungete non diamo sangue, noi? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo?”
Su quel corpo dolente, dove ogni muscolo, teso allo spasimo, diventa espressione dell’umana sofferenza, l’occhio si fa tramite inadatto alla compartecipazione dello spettatore. L’esperienza del pubblico non è univoca. Nella piccola sala di Villa Rossi Martini, le reazioni sono molto diverse. Ognuno può descrivere solamente la propria esperienza, che scaturisce dal vissuto personale e dall’empatia che si instaura con Thormann. Più si è aperti verso l’altro da sé e maggiore risulterà il coinvolgimento. Alcuni, in sala, piangono; altri rimangono impietriti; altri ancora volgono lo sguardo o devono uscire dalla stanza perché sopraffatti. C’è chi ricorda la morte di un familiare, chi la malattia che ci attende dietro l’angolo. Qualcuno ne esce indenne. Forse altri si saranno persino infastiditi. In questo caso, il teatro ha fatto i propri morti. Ma persino nell’espressione corporea ed emozionale più dolorosa, è l’umanità che sembra rialzare il capo, e vincere – in quel flebile sorriso, in quella caparbietà a non arrendersi. Il nudo stesso, privato del senso liberatorio, è mezzo ulteriore per distruggere l’individualità dell’altro da sé (da non confondersi con l’individualismo). Nudo che, come il pigiama a righe, tutto omogeneizza in una massa informe, che rende ancora più tattile e terrena l’ignominia. Quando Imre si riveste, come se tornasse alla vita civile, alla quotidianità, le povere spoglie (simbolicamente e psicologicamente parlando) sono il mezzo per riacquistare una propria dignità. E quando, alla fine, s’infila il cappello e si siede, capiamo che l’umanità ha vinto. E con essa, anche noi. Condannati alla morte dalla nascita, quello che conta è come viviamo il mentre.
Visto nell’ambito del Festival Testimonianze ricerca azioni a Villa Rossi Martini, Genova, sabato 16 aprile 2016
Enduring Freedom
di e con Imre Thormann
(Butoh)