Recensioni — 04/05/2016 at 21:47

Il dramma “incompiuto” dei Giganti rinasce e deflagra nell’ interpretazione di Latini

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MILANO – Una drammaturgia esplosa, deflagrata e in qualche modo “offesa”, questo “I giganti della montagna” di Luigi Pirandello, che Roberto Latini porta in scena, assumendosene l’onere di adattamento, regia e interpretazione attorale. E’ come uno squadernemento “dentro alla testa”. Della scrittura originaria non restano che brandelli appesi a una struttura onirica e a quadri; stracci rimasti impigliati in rovi spinosi e che però mostrano, a tratti, la tessitura a cui appartenevano. Ancora una volta, il senso non è narrativo. Dopo interminabili stagioni della storia dell’umanità, in cui tramandare, prima, e affabulare, poi, erano parsi i soli modi per resistere all’oblio e allontanare la morte, sempre più va diffondendosi il bisogno di prendere il già esistente, rimasticarlo, farne bolo sostanzioso e poi restituirlo in qualche cosa di altro. Spesso il terminus a quo vien dato per scontato e il confronto è fin da subito con questo qualcosa di già digerito, che diventa altro.

Foto_giganti1

Foto_giganti2La trama dell’incompiuto pirandelliano racconta della compagnia di giro di Ilse. E’ chiamata ad espiare, nella ripetizione tantalica della replica teatrale, il feroce senso di colpa per il suicidio del poeta, autore della pièce scritta per amore della prima attrice, la contessa Ilse, “il-sé” narrante della vicenda, in fondo. Portano in scena “La favola del figlio cambiato”, che, nello strazio del coro delle prefiche, ripercorre la vicende della giovane madre, a cui fu sottratto un bimbo troppo piccolo per poter essersi allontanato da solo. La vicenda si concluderà col lieto fine: il bimbo, cresciuto alla corte, saputo dello scambio, tornerà alla famiglia naturale, pur rinunciando al trono. Il senso della metafora è chiaro: richiamare alla propria natura vocazionale, pur ad onta dei privilegi, a cui si potrebbe dover rinunciare; come fa la contessa, in fondo, perseguendo la sua vocazione attorale; come fa il marito, non di meno, assecondandola, nell’espiare il fio della colpa. Il teatro nel teatro, cifra cara a Pirandello, per parlare di quel ben più variegato teatro che è la vita; e se la compagnia è chiamata a recitare alla presenza dei bizzarri figuri onirici e surreali, che popolano la villa di Scalogna – termine spesso associato alla vita dei “teatranti”, come li chiama lo stesso maestro di Girgenti -, la richiesta di avere un pubblico più ortodosso, li porterà a incontrare i “giganti”. Sono massicci uomini di montagna, nella cui rozzezza, accennata solo dagli schiamazzi clamorosi, riecheggia il detto: “Scarpe grosse e cervello fino”; ma “finezza”, qui non rima con “sensibilità”, “bellezza”, “arte” o “poesia”, ma con quella scaltrezza, che fa di loro creature feroci e quasi bestiali.

La stessa abnormità becera di un Polifemo, che, mentre si crede furbo nel tastar la groppa delle pecore, che è costretto a lasciar uscire al pascolo, si lascia gabbare dall’astuto Ulisse, che tutto gli ha portato via, lasciandogli solo la beffa di un nome inutile perfino da pronunciare. Forse questo pubblico, reso grossolano da una pragmatica, che lo ha inebetito, è la platea ideale, a cui la compagnia di Ilse e il benpensante teatro borghese di quei lontani anni “30 ambiscono? E che rapporto ha, tutto ciò, col pubblico di oggi? Qual è l’identikit dello spettatore “ideale” dei nostri giorni e che rapporto ha con quei “giganti” che rovinano giù dalla montagna o che, forse, alla montagna/trampolino verso il cielo ambirebbero di risalire per sfiorare le vette dell’eternità?

Foto_giga3Non è dato sapere se e quanto simili considerazioni abbiano mosso la scelta di Latini, in questo ambizioso progetto, che qui, al Piccolo Teatro di Milano, non può non evocare il fantasma dell’omonimo allestimento di quel Giorgio Strehler che aveva fortemente voluto il gioiellino a pianta circolare entro cui assistiamo alla rappresentazione. Quel che invece si coglie, in modo netto e quasi palpabile, è tutta la “paura” annunciata, gridata, strozzata, balbettata, amplificata, declinata in una pletora di suoni e sonorità, in cui il protagonista è fine dicitore e maestro modulatore; e lo spettro funebre, che allunga dita tanto silenti quanto inesorabili diventa un brivido raggelante. La messa in scena è suggestiva, onirica, ipnotica e surreale. Gioca con proiezioni di parole, che si rincorrono e svaporano come nubi nel cielo e scrosciano come i lampi verdi con cui gli “scalognati” cercano di allontanare i teatranti. Gioca a mescolare luoghi e tempi – il campo di grano, che dice “esterno”, ma poi il lampadario a goccia di cristallo, che fa tanto salotto buono o sala teatrale d’antan; la luce tersa dell’alba che dice “domani” o quella cobalto della notte, che dice “ieri”, mentre poi la vita si misura in un oggi, che ha il languore sepolcrale del limitar del giorno -; eppure in questo non luogo non manca un officinante, sia Ilse o il “mago” Cotrone, la Sgricia o l’Angelo 101, con tutto il suo carico simbolico, amplificato dalla plasticità mimica e prossemica di Latini, che sembra disporre del suo stesso corpo con quella confidente intimità abbandonica, più tipica della marionetta nelle mani del burattinaio.

E mentre si sciorinano tutti i topoi pirandelliani – sogno e realtà, identità e maschera, verità e menzogna, sanità e pazzia, vocazione e ragionevolezza, in cui spesso l’accentuazione dell’uno diventa normalità dell’altra -, assistiamo a una parola che si fa corpo e poi sogno, suono, colore, suggestione; e se anche non dice, apertis verbis, alla nostra mente, ci abbacina il cuore con quella “paura” soffiata, sussurrata ed esplosa, che restituisce tutta l’angoscia di chi è a un soffio dal baratro, come fu l’autore di quest’opera incompiuta. Nulla potrà ritardare il pur centellinato procedere verso la fine di quel trampolino simbolico; nulla potrà salvarlo dall’immagine di quei piedi da salma composta, che scompaiono, risucchiati nella seta leggera di un sipario funebre.

Potenti, il gioco delle immagini e i preziosi tecnicismi attorali del demiurgo Roberto Latini.

Visto al Piccolo Teatro Melato a  Milano, il 3 maggio 2016.

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