Recensioni — 23/05/2016 at 19:30

Lolo è passato di qui, lasciando una traccia indelebile.

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MILANO – “Il marito di Lolo” di Antoine Jaccoud è passato di qui: sala Trenoblu, teatro Franco Parenti di Milano. Più esattamente, la trasposizione teatrale di “Je suis le mari de Lolo”, tradotto da Colette Shammah e diretta da Andrée Ruth Shammah , e sopratutto, è passato un André Borlat, splendidamente interpretato da Pietro Micci. Col suo solo strumento corporeo, l’attore è stato capace di restituire tutta la complessità di un personaggio dalla semplicità solo apparente: quasi naïf, eppure in grado di stoccate dalla verità disarmante, affondate a mani in alto e schiena curva, come chi sia trascinato più da una necessità inconsapevole e incontenibile che da una surrettizia premeditazione.  Già, ma chi è Lolo? E chi è questo suo marito? Lolo Ferrari, al secolo Ève Geneviève Aline Vallois, classe 1963, dicono – altri sostengono 1970, a seconda che si voglia scusare o tacere il suo preteso matrimonio da ancora minorenne – , è morta col l’inaugurare del nuovo millennio. Nella vita faceva la pornostar ed è entrata nel guinness dei primati come la donna dal décolleté più grande di tutti i tempi, “il secondo seno al mondo”, specifica André. Suo “marito”, meglio, André Borlat – la biografia ufficiale la vedeva sposata a quello stesso Eric Vigne, che fu pure accusato per le misteriose condizioni del ritrovamento del corpo esanime di lei – ma  chi era, invece, costui?

Pietro Micci
Pietro Micci

In fondo è questo, quel che racconta la pièce: non tanto la biografia della pornodiva, quanto la desolante solitudine proiettiva di un uomo qualunque, le interminabili giornate trascorse nello squallore di un’esistenza senza scampo, a ingannare il tempo sognando storie romantiche con inarrivabili starlette di “giornali specializzati”, come li definisce lui.  Ci appare in una casa/cantiere in avanzato stato di abbandono, che già la dice lunga sulla sua condizione esistenziale. I muri scrostati, i cellofan per terra come da “lavori in corso”, le sedie in legno malamente ripitturate, un secchio di alluminio d’altri tempi quale unico servizio igienico per rinfrescarsi. Il termosifone in ghisa ancora da montare e, da un lato, una carriola capovolta, simbolo di tutta la sua premura per l’amata, ci spiegherà poi, sono tutto ciò che abita il suo vuoto a perdere; e quel vestito anonimo, “comparato per il matrimonio” e poi “indossato un altro paio di volte soltanto”, compresa, forse, quell’ultima vestizione e fine rappresentazione, che inconsciamente incombe fin dall’inizio. Ci parla da qui: da questa esplosione/esteriorizzazione di tutto quanto il suo squallore affettivo/esistenziale. Dall’eco profonda della sua solitudine ripete quanto sia fortunato ad essere il marito di Lolo; ma lo dice a denti stretti, fra una commozione che è per la vessata compagna di vita, più che per la star affermata, e una volontà di auto convincimento, che cozza coll’affiorare del ricordo dei sacrifici sostenuti. “Ma son stato ricompensato… 100, 1000 volte…”, sembra ripetere soprattutto a se stesso.

Pietro Micci 02

Un monologo senz’altro coinvolgente, modulato da un Pietro Micci, centellinatore di emozioni preziose e mai enfatizzate. Sempre in bilico fra la commozione del poter raccontare una storia che sembrerebbe a lieto fine – lui, “panettiere celibe di mezza età”, obbligatamente in pensione anticipata a causa di un eczema invalidante –, l’orgoglio di essere “il marito di Lolo” – “tutta mia… e sarà sempre così…”- e il comprensibile desiderio sessuale – detto con parole semplici, esplicite, ma mai volgari – di fronte alla porno star, anche se poi capitola: “Toglietemi tutto, ma non i massaggi”. Ma quel che prevale è il bisogno di accudimento – “invecchieremo insieme…” – e la proiettività della propria devastante solitudine, fatta di barattoli di sugo troppo grandi, per i consumi di chi è “celibe”: “Ma quanta solitudine si deve provare in un letto così grande”, è l’estemporanea folgorazione, che lo assale la prima volta che Lolo le spalanca le porte di camera sua.  Non cerca sesso, André, pur in quel mondo fatto di appagamenti immediati; quel che cerca è quel che mai nessun altro penserebbe di cercare lì. E’ amore, sostegno, accudimento, abnegazione, tanto che gli enormi seni della porno diva, iniziale oggetto del suo allettamento, ai suoi occhi diventano “bambini malati”, che lui accarezza, con tocco lieve, nel tentativo di arrecar loro sollievo. “Come si faceva con l’orsacchiotto, da bambini, quando si era a letto con l’influenza”.

Pietro Micci 03

Parla, questo novello Ligabue dai capelli cortissimi e radi, dagli occhi costantemente umidi di commozione; incespica, farfuglia parole forse un po’ sbagliate, che a tratti fatica a cavar fuori dal suo strumento rinsecchito, in qualche modo umiliato nello squallore di mutande, canottiera e scarpe consunte infilate alla maniera di ciabatte, che probabilmente non può neppure permettersi.
E così vien spontaneo chiederselo: sarà vero, quel che racconta, o è solo un suo delirio?  Lolo, ad immagine e somiglianza di Santa Generosa, campeggia da un’immaginetta affissa in alto sulla parete. Bisogna salire su una sedia anche solo per sfiorarla; e questo restituisce tutta l’aurea di sacralità e devozione del più che devoto. Ma poi cosa importa? Ciò che colpisce è lo stridore del fisico scarno e smunto di lui, il taglio di luce calda, che irrompe dalla finestra, avvolgendolo. Davvero sembra che voglia assurgerlo in gloria, come uno di quei martiri finalmente ricompensati dalla divina Provvidenza per il troppo patire. In questo fraseggio messianico, fatto di tribolazioni, solitudine e generosità disinteressata, c’è forse troppa miseria laica perché l’angelo del Signore possa arrivare a sollevare il sofferente. Quel che resta è l’amarezza pacata, i guizzi repentini e la struggente devozione di un uomo “semplice e gentile”, grazie alla millimetrica interpretazione di Pietro Micci restituiscono, a fior di pubblico, in un toccante delirante dialogo, ma a voce sola, con quell’antieroe, che abita in ciascuno di noi.

Visto al Teatro Franco Parenti di  Milano, il 20 maggio 2016.

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