Il regista Peter Brook, nel suo “Il teatro e il suo spazio”, scrive a chiare lettere chi è il critico: “Colui che rende sempre un importante servizio al teatro quando va a snidare l’incompetenza…. un vero alleato per scoprire chi attraversa il teatro irresponsabilmente…. I nostri rapporti con i critici possono apparire tesi, ma in profondità si tratta di rapporti indispensabili”.
Potrei fermarmi qui.
Dopo aver letto l’accorato appello di Massimo Munaro che afferma la validità di “incitare il pubblico, di abbandonare i teatri, al primo sintomo di noia mortifero”, nella lettera rivolta al collega Renato Palazzi, leggo una serie di accuse (critiche), rivolte ai giovani critici teatrali, iniziata come una riflessione con una coerenza condivisibile, deragliata nel suo proseguo, fino ad arrivare a offendere la volontà, la sensibilità, l’abnegazione e i tanti sacrifici in termini di fatica e costi economici, di quella che Munaro, chiama in modo improvvido e superficiale (e banalmente), “strana casta di giovani scribi”.
Parto da quest’ultima affermazione. Premetto che sono un critico che ha compiuto 50 anni, e di fatto mi escludo per motivi anagrafici dalla suddetta “strana e giovane casta… che insegue la moda del momento (quale? Spieghi meglio..) , perché è su di essa che intende costruire la propria carriera”. Parole più fuorvianti di così, non avrei saputo trovarle, per confondere le idee in questa dialettica che vede contrapposti giudizi legittimi, siano di semplici spettatori, o di addetti ai lavori, quali sono (anche) i critici. Primo perché gli scribi erano una “casta molto potente (almeno quelli che lavoravano nell’antico Egitto), la loro condizione economica era invidiabile (fonte Wikipedia) e spesso era accompagnata da una carriera che portava ai vertici della società”.
(Scriba egizio)
Comprendo l’utilizzo del termine scriba, ovvero colui che scrive per professione, ma sono convinto che ci sia anche un intento denigratorio, senza conoscere a fondo cosa comporti intraprendere una “carriera” del genere, oggi giorno, specie in Italia, in una società dove la cultura viene relegata all’ultimo posto, tra le priorità della gestione del bene comune. Merito della cieca gestione politica che sta portando alla deriva la nostra nazione. Una giovane critica che non ha sbocchi economici.
Io che ho alle spalle oltre trent’anni di militanza nel teatro, prima come semplice spettatore, poi operatore teatrale, e infine come critico, mi sento in dovere di difendere la suddetta “casta” (!) che è tutto fuorché “casta”, bensì un piccolo esercito di giovani uomini e donne (età media 25/30 anni) appassionati e volontari (sì volontari), dediti tutti i giorni, in condizioni di precarietà , di sussistenza con pochi mezzi, a praticare l’arte della critica. Non per fare carriera, ma perché mossi da sincera passione, dedizione, amore (anche) per il teatro.
Non è che che le accuse mosse dal regista Massimo Munaro, nascondano altro? Mi permetto di analizzare alcuni passi della sua lettera: “…. lo spettatore, …. è il solo ad avere sull’opera teatrale a cui assiste il diritto ad un giudizio e magari anche ad un dissenso”. Solo?
E da dove viene il privilegio? Da un contratto al momento dell’acquisto del biglietto? E per questo ha diritto di dormire, uscire dalla sala rumorosamente, bere durante lo spettacolo, scartare caramelle, bisbigliare con il vicino di poltrona, lasciar suonare il telefono portatile? Può fare tutto? O è buona educazione, civile, saper rispettare il lavoro altrui, e manifestare il dissenso in forme più intelligenti? Io sono d’accordo con Munaro, quando dice che “lo spettatore ha il diritto di andarsene dal teatro, in caso di dissenso, noia”, o altro, ma c’è modo e modo. A Bassano (dove io c’ero, dove Palazzi ha fatto bene a citare lo scompiglio creato da spettatori maleducati) ho perfino visto una donna uscire dalla sala con un cane in mano. Ebbene, il cane era più educato di decine di spettatori rumorosi. Lo spettacolo in questione l’ho visto e l’ho recensito, (lo stesso che ha visto Renato Palazzi), e posso assicurare che l’esito scenico- recitativo, non è dipeso dal pubblico, ma da una drammaturgia non compiuta, e dalla messa in scena ancora immatura (era una prima nazionale, non rodata, ecc).
Massimo Muraro scrive, rivolgendosi a Palazzi… “ti invito però a ricordare ciò che ben sai: il teatro può sopravvivere anche senza una critica mestierante ma non senza spettatori”.
Dove sta scritto? Un giudizio così assoluto, a mio avviso, forse, nasconde un livore nei confronti della categoria dei critici?
La questione che analizza la figura del critico, del suo ruolo specifico, di come può incidere sull’esito del lavoro artistico, e non solo nell’opinione dello spettatore, è tutt’ora sospeso e si trova in una posizione marginale, rispetto alla necessità di ridefinire quali compiti svolga.
Emerge quanto sia urgente ridefinire il vero ruolo del critico capace di coinvolgere le forze che compongono la scena del teatro, in tutte le sue accezioni. Un quesito a cui va data una risposta è quello che chiede se scrivere e recensire determina delle conseguenze culturali? Siamo convinti che la qualità e la serietà impiegata nel redigere un giudizio critico, spesso scarsamente retribuito, salvo rare eccezioni, valga a legittimare il gesto artistico realizzato. L’interrogativo è: cosa vado a provocare con le mie parole di assenso/dissenso nel decretare un giudizio? Nel caso dello spettacolo di Bassano (per rispetto della compagnia, qui non lo cito a prestito, rischiando di farne il capro espiatorio..), la direzione della compagnia mi ha scritto, ringraziandomi delle precisazioni critiche che ho rivolto loro, pubblicando la mia recensione. “Abbiamo fatte nostre le tue osservazioni e ci sono servite a modificare il lavoro (ancora in divenire), e ti ringraziamo per questo”.
Non serve a nulla la critica? Non è questo un esempio di costruzione di un pensiero critico condiviso, capace di rivedere e migliorare il lavoro frutto di fatica (l’artista), e di impegno il più possibile onesto del critico? Ma Massimo Muraro pensa veramente che il critico giovane adepto di una casta, dopo aver visionato lo spettacolo, intervistato l’artista, seguito le prove, letto documenti, abbia ancora voglia di autoreferenzialità? O senta più il bisogno di riposo, di cercare di alimentarsi dopo 10 ore di lavoro al giorno, come accade a questa “strana e giovane casta di scribi”?
Massimo Munaro scrive a Palazzi: “Se davvero hai voglia di porti delle questioni importanti, piuttosto che al pubblico, ti invito a interrogarti sul discredito assoluto nella quale versa, ahinoi, la critica teatrale in Italia”
Io sento ancora livore, rancore, astio (personale) nei confronti della categoria. Mi chiedo però se Munaro non cada in una contraddizione di fondo.
Il discredito che lui ritiene imputabile alla giovane critica. Il critico scriba ha già “corrotto” e reso “asfittico” l’ambiente del teatro ? Mi spiega come ha fatto? Lavorando di notte, viaggi, accettando l’ospitalità dei festival che garantisce un posto letto, ma non un pasto caldo (per tagli ai finanziamenti), studiando all’università, correggendo recensioni di critici “anziani”, come spesso io chiedo di fare, accettando il loro aiuto con entusiasmo?
Come ha fatto a rovinare la critica in Italia, un tale modo di praticarla, in così poco tempo?
È uno “scriba” giovane, e già ha questa responsabilità? Una giovane critica che trova dignità solo sul web (e in testate on line, dove non è prevista una retribuzione). Questo lo sa Munaro? O ci sono altre cause? I giornali della carta stampata hanno abdicato ad una funzione formativa/culturale (e in qualche caso anche educativa), del loro pubblico, tagliando le recensioni. Un direttore di quotidiano sentenziava che il lettore non vuole leggere le recensioni, anche se ha visto lo spettacolo. Eccola una delle cause della degenerazione culturale: impedire ai lettori di confrontare il proprio giudizio personale, con quello del critico, per poi concordare o dissentire. Questo è il compito della critica. Creare confronti dialettici, culturali. Anche contraddittori!
Ultima osservazione: se la critica è degenerata, la produzione teatrale è indenne? O è il caso di interrogarci se tutto quello che uno mette in scena, è per forza di cose uno spettacolo valido, degno di essere replicato. Il teatro ha una funzione indissolubile: deve trasmettere ed emozionare lo spettatore, far arrivare al cuore e all’anima , un messaggio, dei valori. E questo non accade sempre. I giovani critici che conosco bene , sanno usarlo il loro cuore e la loro intelligenza, nel fare gli scriba!
Li vada a conoscere e vedrà che, forse, cambierà giudizio.
PER SAPERNE DI PIU’
Oliviero Ponte di Pino
http://www.ateatro.org/mostravoce2.asp?alfabeto=critica
Renato Palazzi
http://www.myword.it/teatro/news/53615?
Massimo Munaro
http://www.facebook.com/profile.php?id=1623380492