MILANO – “Et manchi pietà”: pare quasi un je accuse, un atto di condanna. Gli Anagoor, questo il nome del collettivo di ricerca teatrale, che ne firma soggetto, realizzazione e regia, fondano, iniziava il nuovo millennio, la loro residenza in una ex conigliera nelle campagne attorno a Castelfranco Veneto; è da lì che guardano il mondo nel loro sofisticato sperimentare forme di teatro alte e spesso ispirate al mondo classico, ma capaci di meticciare le differenti espressioni artistiche e senza perder di vista la contemporaneità.
Sembrano avere una predilezione per la pittura, gli Anagoor. Il loro primo lavoro, infatti, verteva su “La Tempesta” di Giorgione, usato, lì, come “pretesto colto” per poi arrivare a una denuncia decisamente più contemporanea e mondana della società odierna; “Et manchi pietà”, similmente, si attarda sulla biografia della pittrice barocca Artemisia Gentileschi, per sollevare la questione del doppio modo attraverso cui i mass media anestetizzano le coscienze: con un eccesso di visione o, al contrario, con una totale colposa omissione d’informazione. Il modo che scelgono, qui, Simone Derai, Marco Mengoni e Moreno Callegari, ce lo spiega già il sottotitolo: “Tredici quadri e un prologo”. Così, dopo un’introduzione in cui, moleskine alla mano, Moreno Callegari sembra leggere un estratto del romanzo di quell’Anna Banti, che decretò la fama anche romantica della figura della pittrice, scrivendone una biografia romanzata, ecco i tredici quadri appunto. Ma non prima di essersi soffermato a sciorinare i molti significati del fuoco, protagonista indiscusso del primo quadro e di cui offre già alcune chiavi di lettura, riattizzando l’emozione provata in tanti degli spettatori di quel “Virgilio brucia”, portato solo qualche mese fa al Piccolo di Milano.
E poi il susseguirsi della sequenze narrative proiettate sullo schermo. Senza una sola parola a eccezione di quelle della soprano Silvia Frigato – ad ogni quadro è abbinata un’aria barocca, talvolta solo strumentale, tra l’altro anche cantata-, la drammaturgia riesce non solo a raccontarci la vita della pittrice, ma ce ne restituisce cifre e turbamenti. Nella pulizia di immagini costruite in modo chirurgico e pittorico, nei cromatismi dalla luce fiamminga, nella distribuzione di volumi dalla voluttuosità barocca, ma come sempre cesellati entro un’aurea d’imperturbabilità, scopriamo i tratti di Artemisia. Una donna forte, di certo senza dubbio una donna, che ricorda il rigore e la caparbietà di Ipazia. Come lei, una donna formata in modo paritetico in un mondo per cultura abitato da soli uomini e sotto l’egida di un padre carismatico, sì, ma a cui ha saputo tener testa, primeggiando per indiscutibili meriti personali. Come la filosofa, anche lei votata all’ostracismo della società di appartenenza, ai suoi (pre)giudizi, alle violenze… e, allo stesso modo, lei pure costretta a subire le spire di una seppur aurea prigionia. Ma non c’è pathos, come si diceva, nella narrazione; solo il susseguirsi di gesti algidi e misurati, estetizzanti, e resi con una plasticità classica, che con la loro compostezza quasi olimpica, assurgono a paradigmi puri.
La narrazione procede ricca di simbolismi immediatamente leggibili come il fuoco distruttore, che divora le tele, ma senza intaccare l’ intelaiature, o la presenza costante di gabbie e voliere ad alludere ad uno struggente desiderio di libertà, che ci sembra quasi di sentire ancora anche quando il passero è volato via. Come un grande banchetto: un’immensa tavola imbandita, su cui continuamente vengono servite nuove e prelibate vivande e, a mano a mano che iniziamo ad assaggiarle, è un’esplosione di sapori riattivati dal riconoscere una cromatura già intercettata, oltre che dal sapore precipuo di quel che si stia assaggiando.
E’ il modo tipico degli Anagoor, che, se riescono ad accendere l’emotività degli spettatori nonostante la distaccata compostezza, la calma quasi metafisica e la millimetrica esattezza dei loro gesti, cosa che di per sé ispirerebbe più ammirazione che empatia, è perché alla fine tutto torna. Come in un sofisticato Cluedo. Così ad esempio, il vistoso vestito di seta gialla di Artemisia riparata non a caso nelle stalle dopo lo stupro subito dal maestro di bottega, – capo d’abbigliamento perfetto, nella sua stiratura voluminosa, come può esserlo solo nell’estetica meravigliosa di un quadro barocco -, ricompare perfettamente ripulito nella scena dello “scannamento” di Oloferne. Il verbo rubato a Roberto Longhi, critico e storico dell’arte d’inizio “900, oltre che marito di quella Anna Banti, che tanto si occupò di Artemisia. Ci restituisce tutta la furiosa foga splatter della donna, che finalmente ha fra le mani quell’uomo: il maestro di bottega, che abusò di lei e il mitico personaggio biblico s’identificano nella trasposizione in presa diretta del celeberrimo quadro e Artemisia e Giuditta sembrano darsi il cambio, in quell’abito giallo e poi in quello dalla medesima nota d’indaco, che impiastricciava le mani di lei adolescente.
E che importa se è solo finzione? L’intento non è raccontare un’azione di vendetta/giustizia, quanto cantare quel colore, quella luce, vita, forma, che troppo più spesso ritroviamo più nell’arte che in una vita divenuta sempre più virtuale ed esangue, nonostante i rumors che non ci abbandonano. Tutto torna, complici anche gli intermezzi didascalici affidati a Moreno Callegari e al prezioso libello di sala, che ci accompagna nella visione. Ma tutto sarebbe tornato ugualmente – fatti salvi i riferimenti specifici ai dettagli biografici o alle musiche barocche ascoltate – in questa doccia gelata, ghiaccio bollente, fuoco fatuo che avvampa ma che non brucia, o con qualunque altro ossimoro si voglia definire questo sofisticato teatro/non-teatro, ma di certo esperienza artistica intelligente, performativa, accurata e intellettualmente sfidante, che spesso sono le creazioni degli Anagoor.
Visto al CRT di Milano, il 1 giugno 2016.