MODENA – La Compagnia Òyes di Milano si è costituita nel 2011 ed è composta da nove attori diplomati ex allievi all’Accademia dei Filodrammatici. Un gruppo di giovani artisti impegnati ad affermarsi professionalmente con l’obiettivo di fare del teatro comprensibile a tutti, come loro stessi spiegano, dando importanza alla “condivisione di un linguaggio, una formazione e una necessità comune, cerchiamo di fare un teatro per come lo vorremmo vedere, portando avanti una realtà in cui ci identifichiamo, che riconosciamo. Il desiderio che ci spinge è quello di fare teatro per il pubblico, per la gente, con strumenti chiari, concreti e semplici raccontando storie che diano spunti di riflessione a chi le ascolta”. Oggi giorno sono molti gli attori che vivono di aspettative, spesso deluse, nonostante sia difficile intraprendere una carriera duratura che garantisca delle certezze. Quelli che riescono ad affermarsi sulla scena, devono dimostrare di sviluppare una poetica, e sopratutto, una capacità di tenuta di lunga durata: drammaturgica e registica. Quando accade, invece, di incontrare chi le possiede queste qualità, il teatro offre la possibilità di sentirsi spettatori partecipi. Al Festival Trasparenze di Modena, la Compagnia Òyes dimostrava l’ assunzione di responsabilità in cui ritrovare la funzione della specularità, determinante per l’interazione che viene a crearsi tra attori e spettatori. Allestire Zio Vanja di Čechov (considerata una delle opere più importanti. la seconda dopo il Gabbiano, e scritto presumibilmente alla fine di 1896), è sempre un’impresa ardua per tutti; specie se la scelta drammaturgica – registica, è anche quella di allontanarsi dal testo originale, per farne una versione rivisitata, scegliendo di utilizzare anche la scrittura scenica di gruppo. Il risultato è Vania.
Stefano Cordella firma la regia e cogliamo l’occasione per chiedere l’iter che ha portato alla messa in scena. «Partendo da un lavoro di gruppo come conseguenza dell’abbandono si è arrivati ad una versione ironica e l’improvvisazione in scena ha prodotto una prima stesura. La drammaturgia scenica successiva ha determinato la scelta finale del testo. Per ottenere questo è stato fondamentale la partecipazione di tutti, l’affiatamento, il ragionamento collettivo anche sullo studio delle lettere di Čechov che abbiamo analizzato. In precedenza abbiamo portato in scena drammaturgie nuove, mentre questa volta, si è scelto di affrontare un testo classico come è Zio Vanja, confrontandoci con il testo originale e altri come Il Gabbiano e Ivanov».
La Compagnia Òyes ha debuttato con lo spettacolo Effetto Lucifero, vincitore del premio Giovani Realtà del Teatro nel 2010, finalista al Premio Riccione-Tondelli nel 2011. Ha portato in scena Assenti per sempre, Luminescienz – la setta; Anton- scherzo in un atto; Va tutto bene che ha debuttato nel 2014 al Teatro Filodrammatici di Milano, e Vania (vincitore del premio Giovani Realtà del Teatro 2015). Il Vanja diventa un Vania, nome all’italiana e il regista Stefano Cordella sceglie di fare un ‘Čechov non Čechov’, con una riscrittura molto convincente e riducendo di fatto, a soli quattro i personaggi, l’azione della storia; senza per questo rinunciare agli stilemi del testo, in cui albergano sentimenti contrastanti e dirompenti, pervasi da quell’impotenza esistenziale che pare non permetta mai uno scarto tra vita vissuta e una desiderata. Una statica illusorietà per qualcosa che dovrebbe accadere o cambiare, è trasformarsi in un destino irrimediabilmente rincorso a vuoto – come una ruota che gira su stessa. Lo stesso Čechov ha scritto di suo pugno: «Tutti, finché siamo giovani, cinguettiamo come passeri sopra un mucchio di letame. A vent’anni possiamo tutto, ci buttiamo in qualsiasi impresa. E verso i trenta siamo già stanchi, è come dopo una sbornia. A quarant’anni poi siamo già vecchi e pensiamo alla morte. Ma che razza di eroi siamo? Io vorrei solo dire alla gente, in tutta onestà, guardate come vivete male, in che maniera noiosa. E se lo comprenderanno inventeranno sicuramente una vita diversa, una vita migliore, una vita che io non so immaginare.»
Una sorta di sintesi di quanto reso registicamente e di conseguenza affidato ai quattro bravi interpreti, che nell’essenzialità della loro recitazione, dimostrano come le loro anime si dissolvano in qualcosa di irrimediabilmente perduto. Il salto temporale dal fine secolo dell’Ottocento, di una Russia decadente, si passa ad un presente di oggi, ambientato in una provincia lombarda, senza connotazioni precise, spostando la vicenda senza che questo snaturi nulla a discapito di una contemporaneità artificiosa. Vania è un Ivan la cui vita è segnata da un’inutile respiro che fa il paio con quello artificiale del malato, suo fratello, tenuto in vita da macchine per la respirazione, la cui presenza/assenza è una presenza incombente. Una calamita che attira inesorabilmente verso di sé, come una polarità positiva e negativa. Gli opposti si attraggono. Tutto è malato in quella casa dove albergano sentimenti contrastanti tra un uomo e una donna, sposati tra di loro, una figlia, e un medico chiamato a curare il paziente. Serpeggia tra di loro una malinconia che corrode gli animi. La recitazione è impostata su registri ironici, dissacranti, alleggerita da sovrastrutture inutili che avrebbero reso tutto più difficile. Dentro quella casa si soffoca e si percepisce come ogni aspirazione non è mai stata realizzata, una figlia che vorrebbe emanciparsi dai genitori per trovare una sua realizzazione all’estero, la moglie che non accetta coscientemente di avere un marito incurabile.
Il cognato stesso, quell’Ivan che insieme all’amico medico, volge lo sguardo all’indietro, memore di un passato goliardico. Un ritratto impietoso di un ambiente borghese dei giorni nostri, senza via di scampo, o forse la salvezza per queste persone potrebbe ancora palesarsi, se solo ci fosse uno scatto, un moto d’orgoglio, ma tutto implode nella loro stessa impotenza. La regia affronta con spirito critico la questione di una società in balia di se stessa, là dove una giovane generazione di soli trentenni è già fallita in partenza. Stefano Cordella opta per una trasposizione molto efficace e l’originalità di raccontare un dramma senza perdere i sospiri, i non detti, gli umori soffocati, quelli dettati da sentimenti non espressi e non corrisposti. Le azioni in scena sono dettate da tutto questo agire senza mai arrivare ad una conclusione /decisione, fine, eccetto l’uscita della moglie Elena che abbandonerà da sola la scena. Non dalle porte in fondo (solo le cornici in realtà come dei varchi sul nero del fondale, in cui gli attori sostano in attesa di rientrare), ma direttamente verso l’uscita della sala dove siedono gli spettatori. Come voler dire: il bisogno di evadere dalla finzione per rientrare nella realtà. Una scelta che il regista spiega come uno scarto totale dalla dinamica drammaturgica. Gli altri prigionieri resteranno impotenti senza poter fare nulla se non dimostrare che la loro vita è li dentro da cui non possono più uscire.
Una famiglia dove tutti, in qualche modo, compiono un passo in avanti e uno indietro, e l’impeto del fare viene respinto dal pentimento, suscitato dal non essere mai sicuri di volerlo fino in fondo. La relazione amorosa più enunciata che vissuta, tra la moglie di Vania e il medico, lo testimonia. La recitazione è incisiva e l’abile presenza scenica dimostra vitalità, un’ immediatezza che sostiene un gioco di squadra sapiente, capace di aderire al progetto – per nulla scontata vista la complessità della scelta: pensato per creare quel senso di vuoto interiore (oggi viviamo in una fase di perdita di ogni valore che dia un senso etico morale alle nostre azioni), tale da sentirlo come un’angoscia esistenziale. Ivan /Vania, Elena, Sonia, Astrov il medico, sono come delle marionette mosse da fili invisibili (ma la mano artistica del regista è ben visibile), alla ricerca di qualcosa che non c’è, o forse esiste ma chissà dove, non certo in quella casa. Dialoghi serrati, fraseggio sprezzante e a volte scurrile ma funzionale alla storia. Una semplice quanto congeniale scenografia in cui la postazione della consolle audio luci registica è visibile sulla scena: funge anche da strumentazione di una sala di rianimazione dove appesa c’è una flebo.
La vita stessa è malata. Loro sono malati: i personaggi. Ivan – Vania (Fabio Zulli), Vanessa Korn (Elena), Francesca Gemma (Sonia), Umberto Terruso (il medico), dimostrano come sia possibile affrontare ancora il fare teatro, con la necessaria capacità di mantenere alta la qualità artistica, pur usufruendo di una libertà poetica e drammaturgica personale. Stefano Cordella ha il merito di aver diretto un lavoro corale con umiltà d’intenti. Nella sua semplicità complessa, Vania riesce a farci riflettere sui moti dell’animo umano universali in cui ci possiamo rispecchiare: chi non ha qualcosa di insoluto e irrealizzato nella propria vita? O la nostalgia per non aver dato una svolta ad un presente che non soddisfa e non ci permette di provare la tanto ambita felicità.. Una storia che si ripete da sempre.
Ideazione e regia Stefano Cordella
con Francesca Gemma, Vanessa Korn, Umberto Terruso, Fabio Zulli
costumi e realizzazione scene Stefania Coretti, Maria Barbara De Marco
disegno luci Marcello Falco
drammaturgia collettiva
organizzazione Giulia Telli
con il sostegno di fUnder 35
produzione Oyes
Visto al Festival Trasparenze di Modena dal 5 al 8 maggio 2016