MILANO – Non è uno spettacolo nuovo, l’ “Odissea” di e con Mario Perrotta; in scena fin dal 2007, e da subito impreziosito dalle suggestioni sonore, dal vivo, dei musicisti Mario Arcari e Maurizio Pellizzari. Questa particolare forma di teatro di narrazione ha illuminato per una sera soltanto, “Da vicino nessuno è normale”, lo storico festival teatrale estivo milanese giunto, quest’anno, alla ventesima edizione. Sul palco un narra-attore, com’è stato definito, solo; e dotato di una capacità di affascinare il pubblico, imbonendolo, coinvolgendolo e ammaliandolo con il ruolo di cantastorie ironico e brillante. E la storia che canta, o forse cunta, è una sorta di sceneggiata napoletana made in Salento, ma che affonda le radici nel più antico e condiviso patrimonio immaginifico del mediterraneo: l’épos greco. In più lo stesso riso amaro e popolare di certe piazzate alla Scarpetta o alla De Filippo e analoga fisicità, talvolta ruvida, tal’altra ironica, onirica e sospesa di Totò. E poi tanto di numeri da avanspettacolo, sì, ma di quelli alla Petrolini e quella mimica tipica dei cantautori anni ’50 alla Modugno, capaci di evocare interi mondi semplicemente attraverso gesti ampi e solenni, ma mai solo didascalici. Qui il protagonista è un Telemaco quarantenne, agitato da amletici fantasmi e roso dal tarlo di capire chi sia quel suo padre-eroe, di cui si sente quasi figlio spurio e certo orfano.
“Tu, chi sei?”. E’ la domanda del ciclope, che Mario Perrotta amplifica con un gestualità lenta e antica. Tutto l’atavico sconcerto di chi si trova davanti a un’apparizione improvvisa, una smorfia che strizza gli occhi, come a pescare nella memoria più profonda; contorce la bocca, per poi scivolar giù a incurvar le spalle, affondando nelle viscere per finlmente guizzare nel tipico gesto della mano arrovesciata, che dondola sotto il mento. Ulisse pare avesse risposto con quella, che sembrava una “risposta cretina”, lo schernisce il compagnetto, a cui Telemaco bambino racconta fatti di cui ancora non poteva essere a conoscenza. “Stai zitto, scontentato da Dio – lo fulmina -, che Nessuno è la risposta più bella del mondo!”; eppure non lo abbandona mai il demone del dubbio che quel suo padre potesse essere davvero un “Nuddu… miscatu cu’ nènti”. Se nella gara infantile a “il mio papà è…”, infatti, sembra vincere Telemaco, la bordata finale gliela infligge quel: “Il mio papà c’è”. Sconfitto e affondato! Come quando, parlando di tutti i compaesani andati in guerra, sarcastico ironizza: “Dice che un giorno ‘sta guerra spicciau, rientrano tutti… scasciati, distrutti – e, dopo un esilarante elenco di gustose casistiche – tranne quell’uomo chiamato papà”, tanto da concludere, in merito a colui che tutti gli uomini invidiavano e a i cui piedi si dice non ci fosse donna che non schiantasse, col gustoso ritornello: “Che babbà, ‘stu papà, forse un giorno ritorna qua” con ritmo e movenze da avanspettacolo.
Ecco il cuore pulsante e il nocciolo duro di questa “Odissea” secondo l’ attore di origini pugliesi. In barba alle mille rievocazioni del nostòs dell’eroe dal multiforme ingegno, il narra-attore fa suo un dubbio strisciante – quel che il paese mormorava… – lo capovolge e lo trasforma nel dramma dell’abbandono e dell’identità, immaginando, prima, un Telemaco bambino nascosto sulla spiaggia a ingenuamente attendere il ritorno delle navi, per ritrovarlo, dopo, adulto e impegnato a soffocare la rabbia montante dalla delusione di un’attesa così beckettiana da non poter resistere alle male lingue di paese. Al punto da esserne travolto perfino lui: “Io, quando guardo il mare mi ronzano in capo tutte queste storie e non mi posso evitare di odiare… mio padre? Mia madre? Me stesso, che non so prendere il mare e andarlo a cercare… E dove poi?”. Così, dopo averci fatto sorridere e averci divertito con numeri brillanti, pezzi di bravura popolari e battute sarcastiche e taglienti; mostrato attraverso una splendida plasticità mimica, gli uomini e le donne di paese, il muro dell’acqua marina domato dalla lama del cozzaro; o quello sotto il quale si appostavano i paesani, a spiare il riluttante riserbo di donna Speranza, costantemente nascosta dietro a mani alzate per schermarsi il volto, supplici a quel figlio iroso: “Cittu, figlio mio, sta’ cittu” (“Zitto, figlio mio, stai zitto”), alla fine Telemaco si scioglie in un composto atto di resa. Se la parola è evocativa e poetica, terribile o triviale, a seconda dei casi, ma sostenuta sempre da innesti musicali, capaci di amplificarne la portata emozionale, il corpo dell’attore è un sensibilissimo ricettacolo dell’eroe omerico e dei suoi compagni, di Penelope, Polifemo, Circe, degli uomini trasformatisi in porci e dei proci allusi dalle malelingue a consolar la madre.
Mario Perrotta è soprattutto Telemaco e Antonio il cozzaro: solo il mare e lo scemo del villaggio, infondo, sanno ancora regalargli un pur flebile legame con quel padre, che brilla ancor più per la sua assenza. Con quel gioco dello sfamare il mare sgusciando cozze, l’uomo gli insegna il limite; perfino furia delle onde deve sottomettersi a quella linea disegnata sul bagnasciuga, a ricordargli il valore genitoriale dell’autorevolezza, che è carezza sì, e abbandono, gioco e tenerezza, ma anche la presenza imperiosa e ferma di un “No”, che a lui nessuno ha mai saputo opporre.
Uno spettacolo costruito con intelligenza e cuore, questa “Odissea”, che valse al narra-attore il Premio Hystrio alla drammaturgia 2009, dopo esser stato finalista, l’anno precedente, come Miglior Attore al Premio Ubu. Generosamente giocato dall’istrionico mimo, punta il dito sul nervo scoperto di una generazione orfana di quei padri assenti, la cui nomea certo non può bastare.
Visto al Teatro La Cucina, ex ospedale Paolo Pini di Milano il 24 giugno.