MONTICHIELLO (Siena) – Autodramma così lo definì Giorgio Strehler in anni in cui questa fenomenologia teatrale, nata tra le crette senesi si presentava per la prima volta e come unica in Italia; per l’audacia e la creatività legata a menti aperte sul nazionale, ma anche capaci di legare a sé la laboriosità e intelligenza delle anime che vivevano e tuttora vivono sulla propria pelle quel territorio. Un’esperienza questa del Teatro Povero (definizione data da Grotowski) che con Notte di attesa, è arrivata al suo cinquantesimo anno. Iniziò cosi: un intero paese (composto da circa duecento abitanti) incominciò a riunirsi per raccontare e raccontarsi vicende e problemi sia personali che famigliari legati al lavoro ma soprattutto al territorio, costruendo sotto la guida attenta di alcuni intellettuali che a Monticchiello avevano casa, delle drammaturgie che poi avrebbero messo in scena loro stessi in qualità di abitanti-attori. La rappresentazione dopo alcuni mesi di lavoro, sarebbe poi andata in scena nella piazza del borgo medievale in un suggestivo spazio all’aperto accanto alla svettante Chiesa fra un micro dedalo delizioso di vicoletti composto ad anello. I temi scelti e discussi avrebbero così portato in scena e alla luce di un pubblico sempre più affezionato, proveniente non solo dalle vicinanze (la rinascimentale Pienza, città di Mario Luzi è a soli sette chilometri), ma anche da altri luoghi più lontani raccogliendo via via consensi della critica nazionale. Il tema della mezzadria che negli anni Sessanta andava scomparendo modificando antropologicamente il territorio e le sue genti, quello conseguente dello spopolamento delle campagne, la fuga dei giovani alla ricerca di un futuro nelle città vicine (Firenze, Roma e chissà dove), l’avvicinamento di un intellettuale come Alberto Asor Rosa al progetto del Teatro Povero, sono storia che andrà a breve in stampa attraverso la pubblicazione di un volume per il cinquantenario e che sarà presentato nel corso di un Convegno internazionale nel mese di ottobre. In questo volume sarà narrata l’evoluzione del progetto che nel corso degli anni ha prodotto un sistema di organizzazione all’interno del piccolo borgo (che nel frattempo è rientrato insieme al territorio della Val d’Orcia sotto il patronato UNESCO) davvero peculiare. L’esperienza teatrale infatti ha avuto uno sviluppo politico-sociale quasi di sapore vetero-comunista: il Borgo, lontano dalle rotte turistiche maggiori, sostanzialmente contadino (oggi sono spuntati numerosi agriturismi e bed and breakfast ma è cosa recente) si è inventato uno spazio fra l’altro di pregevole ristrutturazione in cui in cooperativa convergono, un’ edicola dei giornali, lo spazio dove arrivano i medicinali per gli anziani che non possono spostarsi, un punto internet. Una storia esemplare di capacità di resilienza da parte di una popolazione abituata alla durezza e alla fatica della coltivazione delle crette, fiera delle proprie origini e attenta alle mutazioni intergenerazionali, temi questi tutti presenti anche nell’autodramma che celebra il solidissimo cinquantenario.
E ancora come da molti anni regista e direttore artistico dell’impresa teatrale è Andrea Cresti, pittore e scenografo che fin dall’adolescenza ha partecipato come attore e abitante alle messe in scena del Teatro Povero. Per la celebrazione è stato scelto un canovaccio piuttosto affascinante dal punto di vista letterario ossia la vicenda emozionale ed umanissima di un gruppo di persone uomini donne e ragazzi di diverse età: da bambini ai bisnonni, una comunità che potrebbe essere anche una famiglia allargata ( fra cui un giovane africano del Gambia oggi ospite della comunità del borgo della provincia senese), in preda ad una forse irrazionale (o forse no) paura di un Nemico prima invisibile e poi forse solo immaginario frutto di allucinazione virtuale collettiva. E così, per difesa istintiva naturale è necessario innalzare muri e sollevare ponti levatoi quasi castello medievale in cui una parte sta per combattere contro un’altra. Peccato che la proiezione più o meno immaginaria crea come sempre mostri che la ragione è e deve essere in grado di contenere, demistificare per poi allontanare. Così nella affabulazione a più voci fra un innalzare e far cadere le tessere mosaico di barriere di fantasie o reali, ci si chiede fra bimbi che si affacciano dalle finestre sul mondo, anziani il cui volto guarda ai tempi della mezzadria, ragazze che non trovano da quel borgo- come spesso tutti-il campo telefonico per avere notizie su un curriculo per posto di lavoro fuori tempo massimo. Un bel vento di tramontana spazza via timori e incertezze mentre dopo un’ora di spettacolo anche gli spettatori un po’ freddolosi, si tolgono le copertine dalle ginocchia per accedere insieme agli attori-abitanti ad una riflessione comune sul senso dei tempi da un microcosmo che li riflette a specchio allo specchio che tutti ci riguarda. Quello di un Paese, l’Italia, dove spesso la metafora dell’ologramma utilizzato in Notte d’attesa-che è un po’ riflesso dejà vu ma comprensibile ai più di un universo virtuale da video game, fa riscontro un sano rapporto coi corpi le voci e le storie di chi tutti i giorni combatte anche e se ammesso che fosse, con nuovo Nemico, ma per guardargli il volto e dialogare, anche con lui.
Notte di attesa- 50 anni di Teatro Povero
Regia Andrea Cresti
con Abitanti-Attori del Teatro Povero di Monticchiello
visto a Monticchiello, il 12 agosto 2016