VIGEVANO (Milano) – L’articolo 27 della Costituzione italiana spiega che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Dal 2013 nella Casa di reclusione di Vigevano questo può avvenire, anche per l’istituzione di un progetto che prevede l’utilizzo del teatro con “fini trattamentali”, nel favorire una maggiore inclusione quando il detenuto avrà terminato di scontare la sua pena e tornerà libero. Il progetto “Educarsi alla libertà” curato dal regista e drammaturgo Mimmo Sorrentino, chiamato dalla direzione dell’Istituto di pena, aveva come obiettivo quello di favorire una presa di coscienza da sviluppare nell’ottica di un futuro reinserimento nella società. Un processo di educazione alla libertà. Il direttore del carcere Davide Pisapia ha creduto fin da subito alla funzione del “teatro partecipato” cogliendone l’importanza che riveste: strumento capace di sperimentare la creatività, di offrire un percorso di formazione e di riscoperta della libertà, durante ma soprattutto dopo il periodo di vita carceraria in cui le condizioni ambientali e restrittive di fatto la impediscono. Davide Pisapia presentando il progetto spiegava come “l’iniziativa ha un doppia valenza: serve ai detenuti per creare un canale di comunicazione con il mondo esterno e fa ricordare alla città che il carcere è un suo servizio, così come sono l’ospedale e il Comune”.
Parole che hanno dato seguito ad un significativo rapporto di collaborazione con il regista che firmato in precedenza anche la regia di “Terra ed acqua”, recitato da attori detenuti dopo un periodo di prove che prevedeva un percorso di rieducazione e di revisione delle loro scelte devianti. Lo spettacolo è andato in scena in una chiesa di Vigevano e in seguito al Teatro Elfo Puccini di Milano. Un’esperienza significativa che ha permesso di realizzare “L’infanzia dell’Alta Sicurezza”, uno spettacolo esito finale del laboratorio di “teatro partecipato” che si spiega come “un teatro pertanto pensato per chi lo fa e non per chi lo vede”. Scritto e diretto da Mimmo Sorrentino è già andato in scena e recitato da otto detenute del reparto di alta sicurezza, con oltre 40 repliche alla presenza di tremila spettatori e tra questi anche di Massimo Recalcati, Oliviero Ponte di Pino, Nando Dalla Chiesa, oltre a numerosi docenti universitari. Una delle repliche si è svolta nell’aula magna dell’Università Statale di Milano.
Nel mese di novembre alcune delle attrici dello spettacolo, Teresa, Rosaria, Margherita, Michela sono state anche le protagoniste del laboratorio: “Il teatro detenuto insegnato dalle detenute: perché formarsi da chi si forma”, organizzato da ATeatro a cui hanno partecipato registi, attori e operatori sociali. Un’esperienza che le detenute hanno condiviso dopo aver lavorato a lungo sulle proprie storie di vita. Il regista ha seguito un iter ben preciso sperimentando la tecnica del racconto autobiografico in cui le detenute hanno iniziato a parlare delle loro esistenza vissuta durante loro infanzia. «In questo modo è stata data la possibilità di accedere al loro dolore, di togliersi le maschere delle carnefici e delle vittime – spiega Mimmo Sorrentino – e si sono aperti squarci di umanità, prodotto poesia in persone e contesti dove la poesia era stata bandita, violentata, cancellata. Il dolore raccontato sfugge alle analisi sociologiche di genere. Sfugge ad una letteratura di stampo iper realista. E’ il dolore delle donne Caino di cui nessuno sa niente. Grazie a questa particolare forma d’arte, il teatro partecipato, si sono messi in moto nel carcere di Vigevano meccanismi di emancipazione.»
Mimmo Sorrentino è stato anche uno dei protagonisti del Convegno delle Buone Pratiche del Teatro alla Civica Scuola di Teatro “Paolo Grassi” di Milano: “Teatro Sociale e di Comunità: la formazione degli operatori, scuole e idee a confronto“, organizzato da ATeatro in collaborazione con la rivista “Catarsi – teatri delle Diversità“, Università di Torino – SVT (Social and Community Theatre Center) a cura di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino (e la collaborazione di Vito Minoia, Alessandro Pontremoli, Mimmo Sorrentino), che si è svolto il 5 novembre scorso a Milano.
Fabrizio Fiaschini docente dell’Università di Pavia, Dipartimento di Studi Umanistici nel suo intervento ha spiegato che per «inquadrare in modo corretto la questione della formazione nell’ambito delle pratiche di teatro sociale è fondamentale una premessa: il teatro sociale non è un nuovo modello, una nuova metodologia teatrale, quanto, piuttosto, un nuovo modo di ripensare, radicalmente, il ruolo del teatro nel cuore della nostra contemporaneità, ritornando a valorizzare le potenzialità trasformative del suo linguaggio, in stretta relazione agli sviluppi dei processi sociali e culturali (…) – concludendo poi nel suo intervento – che il teatro sociale non è qualcosa di nuovo da inventare ma qualcosa di antico da riscoprire: una memoria da riattivare, rendendola ancora capace di incidere sulla complessità della nostra vita quotidiana, in vista del bene comune.»
Parlando del tema ” Che cosa è il Teatro Sociale e di Comunità?”, Mimmo Sorrentino ha spiegato che «La nostra esigenza di fare teatro sociale nasce dalla necessità di desiderare un teatro più vivo. Nasce anche per la disaffezione e lo dico tra virgolette, di un teatro per un pubblico borghese, mirato ad ottenere delle recensioni, e questo ci annoia. Abbiamo necessità di una maggiore vitalità. Certo il metodo di fare teatro come lo intendiamo noi può anche essere retorico, di successo o meno ma questo cambia poco. La domanda di teatro sociale è in forte espansione perché aumenta la richiesta della gente nel volerlo fare. Dobbiamo far capire all’altro genere di teatro l’importanza di lasciarsi contaminare dal nostro metodo di lavoro e al contempo vederlo come un’opportunità per allargare la visione più ampia possibile che includa tutti i generi teatrali possibili.»
Per seguire da vicino il lavoro di Mimmo Sorrentino siamo entrati nel carcere di Vigevano nella seconda giornata del laboratorio su invito di ATeatro, e osservare da vicino un’esperienza così particolare, vissuta in un ambiente dove la parola libertà assume un significato completamente diverso da come viene comunemente recepito. All’interno ci si attiene alle rigide norme di sicurezza che disciplinano l’accesso accolti con grande disponibilità dal personale di guardia.
Gli agenti di custodia ci accompagnano nella sala dove si svolge l’incontro e qui incontriamo il regista Sorrentino al quale chiediamo di spiegarci come agisce il teatro sociale, forma d’arte fuori dai contesti tradizionali. «Non è che impari una volta per tutte e per sempre, bisogna stabilire un proprio limite. Lavorare in un carcere sul concetto di libertà produce un ribaltamento, un’apertura potenziale al discorso assente esso stesso in carcere. Sai che non salvi nessuno specie se lavori qui dentro. E chi mi chiede se ciò che faccio è una forma di terapia, rispondo che fare teatro serve a generare un cambiamento che spero produca benessere. Parlare di terapia significa parlare di patologia e l’attore detenuto non è un malato. Se lavori in psichiatria allora il problema emerge e le figure mediche sono presenti. Le persone affette da Alzheimer se fanno teatro sono più propense a ricordare ciò che faranno piuttosto quello che hanno fatto e si organizzano per fare delle cose che dovranno fare, mentre quelle del passato appartengono e si avvicinano di più ai confini con la morte. Il medico attraverso il teatro lavora per trasformarlo in terapia. L’importante è riconoscere i propri limiti. L’operatore affronta la lettura del testo raccolto, del detto non detto per cercare le parole delle persone che ha ascoltato dire ma che loro non sanno di aver detto (o vorrebbero dire). Questo è teatro di servizio ma può diventare anche teatro produttivo; al servizio di qualcuno perché è l’ente che ti chiama per lavorare con la sua utenza e non per il pubblico e quindi per la parte trattamentale. L’etimo della parola contiene una forte contraddizione – prosegue Mimmo Sorrentino – significa trarre con forza’ ma anche ‘trattabile’ e adattabile’, e queste hanno un doppio significato. Il teatro di servizio può diventare produttivo viene visionato da esperti che lo ritengono valido per essere portato in scena anche all’esterno, convinti che possa essere presentato al pubblico. Il progetto allora va ripensato insieme all’ente committente.
È importante però ricordare che ogni proposta fatta si basa Un atto di fiducia quando tu dai la consegna e anche il rifiuto a partecipare, se accade, anche nella proposta di un esercizio di improvvisazione, va sempre accolto ed elaborato insieme per ragionare e riflettere sulle cause che impediscono la partecipazione. Una condizione superabile comunque la maggior parte delle volte. Quello che bisogna fare è dividere l’errore dalla persona che tu coinvolgi nel progetto teatrale. La stima per la persona deve restare tale. Dentro le storie che vengono raccontate c’è l’errore ma la persona è sacra. Bisogna scindere. Accade che quando fai teatro dentro il carcere non ti preoccupai delle vittime, mentre quando sei uscito, viene spontaneo pensare anche alle persone che hanno subito delle sofferenze.»
Mimmo Sorrentino nel laboratorio condotto con otto detenute ha proposto degli esercizi di improvvisazione, anche molto impegnativi, dove veniva sperimentata la creatività immediata. Deve partire da un atto di fiducia quando tu dai la consegna e anche il rifiuto a partecipare se accade va accolto ed elaborato insieme Un metodo per contrastare la depressione cronica che insorge dentro il carcere ma il regista precisa che fare teatro non ha come scopo quello di curare quanto, invece, di rigenerare la condizione esistenziale di vita. «La depressione conseguenza dell’isolamento non la puoi migliorare ma il lavoro che fai con il teatro serve ad utilizzare questa condizione per trasformarla e può diventare creativa e costruttiva. Ho proposto alle detenute di raccontare la loro infanzia (da qui nasce il titolo dello spettacolo, ndr), racconti dove vengono descritti anche fatti di sangue ai quali hanno assistito. Testimonianze reali molto tragiche che rievocano un’infanzia difficile affidate a ciascuna di loro dove la propria narrazione è interpretata da un’altra delle attrici Una sola di loro interpreta la sua per esigenze del testo drammaturgico. Siamo partiti dalle storie vissute in contesti di chiusura, di emarginazione, di negazione. Devo ringraziare la sensibilità del direttore Davide Pisapia che ha creduto in questo progetto e anche Claudia Gaeta responsabile dell’area educativa, la quale è stata sempre al mio fianco».
Lo spettacolo è andato in scena anche all’Università Statale di Milano su invito del Rettore della Statale, Gianluca Vago accogliendo la proposta di Nando Dalla Chiesa, ordinario di “Sociologia e metodi di educazione alla legalità”, dopo aver assistito o meglio partecipato ad una delle repliche in carcere. La sua presenza significativa anche per il nome che porta, da spettatore partecipante è stata tale da farli scrivere nella sua rubrica del Fatto Quotidiano: “Che pensare di queste parole che fluiscono a metà tra la scimitarra e la poesia? Che cosa pensare della figlia di un boss tra i più celebri che centellina con voce gentile l’inno di Mameli? Sembra un miracolo”.