MILANO – Il Pinocchio di Latella non è un “paese” per bimbi. Le parole ricorrenti nel testo drammaturgico ricavato, con Federico Bellini e Linda Dalisi, dal libro di Collodi, sono: fame e morte. Corrispondono a desideri che al burattino per la sua stessa natura di oggetto-cosa non è concesso di soddisfare. E però si trasformano nel lungo viaggio dentro la notte e la paura che Pinocchio compie: la fame dello stomaco (di cui Geppetto ahimè lo ha dotato) diventa fame di vita, di carezze, di abbracci verso la fine delle tremende avventure, quando della Bambina dai capelli turchini non resta che una vecchia che vuol fargli da madre e del padre Geppetto non si trovano più tracce prima di finire nel ventre della balena. Della morte c’è la presenza ossessiva, le creature mostruose e crudeli incontrate sono fuori dai confini della vita reale per statuto o per immaginazione, ma quella che il ribelle pezzo di legno invoca è liberazione dalla solitudine, dall’abbandono, dal non sapere che cosa ci stia a fare nel mondo.
Il nodo di “Pinocchio” è tragico: l’impossibilità di vivere come un essere umano si scontra con la presenza nella sua strana conformazione di sentimenti di grande tenerezza e bontà, di candore e fiducia, sempre traditi. L’equilibrio permane fino a quando egli “sente” possibile la trasformazione da burattino a ragazzo in carne e ossa, staccandosi dal ciocco cui era abbarbicato. Tra la trama collodiana e i rimandi agli egoismi di padri/madri e figli si libera la fantasia registica di Antonio Latella, con qualche ridondanza ma profonda, fatta di atmosfere, cucita sui sogni o incubi dell’infanzia. I suoi attori, sempre tutti in scena, quasi coautori della regia, sembrano cercare una loro strada tra pericoli e trappole, davanti al pubblico, come fa il Grillo di Fabio Pasquini. Con le fasi della paura scandite da una lastra di metallo e i momenti della natura ostile da macchine dei rumori – le scene sono di Giuseppe Stellato – la prima parte si svolge sotto una nevicata di trucioli di legno che diventano cibo, onde del mare, presenze confortanti. La seconda è immersa in una nebbia che nella sua evanescenza disorientante moltiplica il gioco, la commistione tra umani e animali morti, impagliati come in un museo degli orrori. Su tutti incombe dall’alto un gigantesco tronco di legno che fa pensare ovviamente ai “mostri” meccanici di Ronconi. Tra gli attori, emerge la duttilità di Marta Pizzigallo che è Colombina/Pulcino/Merlo/Ostessa/Grosso Colombo/ Lumaca; più rigidità ha la Fata di Anna Coppola. Le metamorfosi di Massimiliano Speziani da Geppetto a Geppetto passando da Mangiafuoco al Giudice al Pescatore Verde al Padrone del Circo mostrano l’affrancamento dal personaggio ma anche il percorso della figura del padre. Eccezionale è la prova di Christian La Rosa nel ruolo di Pinocchio. Intanto, la soluzione trovata per indicare le evoluzioni del famoso naso è semplice e geniale: basta un gesto delle mani, un appello come si trattasse di un dialogo tra attori e “quella cosa” sembra crescere o diminuire, in funzione del tasso di fame, più ancora che di bugie. Ché anzi le bugie sono un atto di libertà, un’invenzione poetica come il linguaggio che nello spettacolo è davvero giocato al massimo: rime, parole “maravigliose”, balbettìi di una lingua in formazione, sganciata dagli stilemi scolastici e pronta a crearsi: omaggio all’autore Collodi che nel 1881 pensava a come portar in pagina la cultura della gente comune, l’italiano quotidiano e ricco di memorie.
E Latella elabora anche un nuovo finale che non è lieto perché questa non è una favola, ma un viaggio di iniziazione (terzine di Dante scivolano più volte nel testo): il ragazzo Pinocchio torna a casa dal babbo come dopo una lunga assenza, ma l’uomo gli rivela di essere morto non senza prima avergli detto che volere e fare un figlio non vuol dire amarlo. Il viaggio del nuovo Pinocchio potrebbe continuare, il tronco gigantesco si gira verso il pubblico: può continuare anche il nostro.
Pinocchio, regia Antonio Latella, visto al Piccolo Teatro di Milano il 21 gennaio