BOLOGNA – “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”, scriveva Shakespeare ne “La Tempesta: il drammaturgo pensava all’essenza umana, la parte più nascosta, celata, profonda (anche sacra – aggiungiamo noi), e allo stesso tempo, immodificabile ed eterna. L’ Anima. I sogni sappiamo appartenere al mondo oscuro e sconosciuto, materia d’indagine studiata fin dai tempi degli antichi Greci, da Aristotele a Platone. La psicoanalisi stessa, con Freud ha cercato di svelarne l’origine. Se i sogni sono la raffigurazione degli eventi accaduti nel mondo fenomenologico ed esistenziale i più sensibili, vissuti ad occhi aperti; la filosofia spiega come queste esperienze vengano poi rielaborate psichicamente durante il sonno, tradotte simbolicamente come risposte della nostra volontà, ai desideri che affiorano ma che non possono essere riconosciuti come tali.
La coscienza dell’essere umano lo impedisce e il sogno diventa la maschera dietro la quale si cela il vero nostro essere. Quello che noi siamo realmente. Chissà allora cosa è accaduto nella mente di una “vecchietta” e di un “omino” apparentemente sconosciuti l’una all’altro ma uniti da qualcosa che si rivelerà sempre più una presenza inquieta quanto speculare. Si ritrovano a convivere nella stessa casa. Quasi fossero delle presenze fantasmatiche o allucinazioni oniriche. Non si (ri)conoscono dentro quella casa dai muri sberciati, diroccata, come se fossero i ruderi di un posto abbandonato e fatiscente, che alla vista degli spettatori, appare come un luogo di memorie ancestrali. Metafore di vite appartenenti ad un passato in comune dove qualcosa di tragico è accaduto ma è stato rimosso dalla psiche. Come un brutto sogno, un incubo. L’inconscio della “vecchia” considera l’uomo una presenza sgradita. Tutto questo appare in “Assassina” di Franco Scaldati, con Enzo Vetrano e Stefano Randisi, registi e attori.
Eppure c’è qualcosa di famigliare in entrambi: tutti e due sembrano aver vissuto da sempre in quella cucina fatiscente in cui c’anche il bagno a vista, un secchio, una gallina in gabbia, una radio che gracchia. . La mosca fastidiosa. Senti evocare perfino un pescecane e un coccodrillo, e questo strano bestiario in parte reale, in parte immaginario, crea sempre più l’atmosfera da fiaba anche crudele. Un topo, inquilino abusivo pure lui, fa dire alla “vecchia” (Enzo Vetrano) «un corpu i scupa ‘mmenz’ aricchi», che tradotto significa: un colpo con il manico della scopa sulla nuca, in mezzo alle orecchie. È una delle tante battute capaci di suscitare la risata e lo spaesamento per chi ascolta e vede. Azione apparentemente banale. L’utilizzo degli oggetti di uso casalingo dimostra che c’è un legame che li unisce. C’è come un meccanismo in cui l’oggetto domestico diventa il tramite per sondare la vita di ognuno di loro, come se appartenesse ad entrambi suscitando però una particolare sindrome simile a quella del perturbante nelle loro coscienze. Le abitudini quotidiane sono identiche, l’uso in comune entra in contraddizione, però, con il rifiuto (iniziale) di capire perché sono in relazione. La casa è anche la propria “casa interna”, l’arredo è la personalità, il carattere, la propria storia di vita. In psicoanalisi il perturbante è quello che si presenta come estraneo, non famigliare, capace di suscitare sentimenti di paura, angoscia, e la cui genesi si ricollega, si connette (ma è contradditorio), a quello che era già conosciuto da tempo immemore, ma poi rimosso. La rimozione è tale da non ricordare più.
In Assassina il perturbante colpisce i due protagonisti fino all’epilogo, dopo vari tentativi di riavvicinamento, segnando la parola fine con la morte di entrambi. La morte aleggia su tutta la storia ma la levità della scrittura unita alla regia e interpretazione viene sfumata da una poetica raffinata e perfino malinconica a tratti. Enzo Vetrano (la “vecchia”) e Stefano Randisi (“l’omino”) , il cui talento li rende capaci di far provare anche commozione oltre che le dovute emozioni a cui il teatro non deve e non può rinunciare. Due straordinari protagonisti di uno degli spettacoli più riusciti della presente stagione teatrale.
Accadeva al Teatro Arena del Sole in una sera fredda e umida, come è frequente trovare a Bologna. Diventa un sollievo gratificante “ripararsi” dentro il teatro per lasciarsi trasportare dal calore siciliano di due attori “emigrati” al nord; eredi di una tradizione teatrale antica, e convinti estimatori del drammaturgo Franco Scaldati – autore, attore e regista palermitano. È suo il testo di Assassina” presentato da Cristina Ventrucci che scrive nel libretto di sala: «Al centro del teatro di Enzo Vetrano e Stefano Randisi c’è l’attore, la sua materia poetica fatta di carne, di voce, di aura della scena contemporanea, porgono al pubblico, forte anche di una pratica condivisa e dialettica tra recitazione e regia, sgorga da tale matrice e diventa consistenza scenica avvolgendo lo spettatore».
Sono artisti capaci di recitare attraverso i fondamentali dell’arte scenica senza mai tradire il vero saper fare teatro e non solo: attirano dentro la scena lo spettatore, coinvolgendolo, come potrebbe accadere nella realtà, in una casa dove non sai darti una spiegazione del perché ci sono degli estranei che non si riconoscono ma che ci vivono. Sono identità sconosciute, si muovono a disagio per finire nella vasca da bagno diventata anche un letto in coabitazione forzata. Si incrociano e si allontanano subito dopo; per poi ritrovarsi malgrado loro, dando vita ad una serie di scene esilaranti. Assassina è una metafora dell’alienazione della condizione umana di solitudine, di storie che appaiono incomprensibili alla razionalità che pretenderebbe di dare sempre una spiegazione plausibile. Io non ti riconosco e allo stesso tempo non so chi sono io. L’interrogativo si fa prepotente: ma chi è Assassina? Chi sa distinguere la vittima dal carnefice o viceversa? O tutti e due sono assassini e vittime allo stesso tempo che per qualche strana alchimia sono riapparsi in una vita parallela ? Il tema del doppio appare come denominatore comune in questa pièce di Scaldati; al quale va riconosciuto il merito di non dare risposte agli interrogativi esistenziali, per non scadere nella banalità di una spiegazione retorica che avrebbe inficiato l’esito stesso della rappresentazione.
La sintesi sembra essere questa e viene riproposta con una versione più comprensibile in italiano, rispetto alla stesura originale. Franco Scaldati compose Assassina utilizzando una scrittura arcaica, data da una struttura drammaturgica, se la vogliamo definire anche musicale, nelle sue sonorità linguistiche. Vetrano e Randisi scelgono di stemperare il dialetto siciliano stretto, rendendolo così accessibile a tutti: operazione intelligente. Ma sanno fare di più: Randisi prima dell’inizio dello spettacolo introduce la visione declamando con sagace ironia le “istruzioni per l’uso”, un glossario delle parole della parlata siciliana, facendone un divertito spartito sonoro. Un prologo in grado di anticipare le atmosfere surreali della commedia e determinanti per l’evoluzione stessa della trama. Eppure stiamo parlando di una storia che ha sviluppi e dinamiche molto più intriganti di quanto si pensi. C’è come un meccanismo in cui l’oggetto diventa il tramite per sondare la vita di ognuno di loro, come se appartenesse ad entrambi suscitando però una particolare sindrome simile a quella del Perturbante.
Sullo sfondo nero che avvolge la scenografia, appare una cornice in cui si intravedono delle figure umane illuminate da una luce calda, simile ad un ritratto in costume dipinto da un pittore. Uno spazio dove appaiono due musici, i Fratelli Mancuso il cui il canto e la musica sono la trama sonora delle voci dei due protagonisti. Intermezzi musicali suggestivi e di grande spessore . Sono figure riconducibili ai “genitori” come proiezione geneaologica della donna e dell’uomo (“forse” – scrive Cristina Ventrucci, spiegando come sia labile il confine tra identità femminile e maschile), la maternità e la paternità che rappresentano la simbologia arcana e allo stesso tempo inquietante. Come non ricordare anche il precedente lavoro di Scaldati “Totò e Vicé”, anche in questo caso interpretato superbamente dai due attori palermitani. Due stralunati amici che si ritrovano e appaiono anche in questo caso figure fantasmatiche. Il teatro che sa raccontare con la poesia.
roberto. rinaldi
Visto al Teatro Arena del Sole di Bologna il 4 febbraio 2017
In replica fino a domenica 19 al Teatro Elfo Puccini di Milano
MILANO – Forse bisogna avercela un po’ nel sangue, una certa tendenza a lasciarsi ammaliare dalle storie. Forse un po’ bisogna essere della genia di coloro che, pur ad onta di un’età anagrafica che da molte lune, oramai, avrebbe dovuto accommiatarsi dalla meraviglia, ciononostante ancora indugia, libera dagli schemi precostituiti, nel ritmo lento e nella nenia non sempre accomodante della narrazione. E’ la fascinazione della parola: ma di una parola incarnata in quel corpo attorale, che, come ogni strumento che si rispetti, suona in maniera specifica. Ognuno ha il proprio timbro e il proprio colore. Ognuno, una nota e un imprimatur, che riconosci subito. Ti spiazza di dolcezza e gratitudine, quando ti risuona: è il gioco del Teatro, quello con la “T” maiuscola; e se non sempre è un gioco per bambini, di certo resta il più avvincente dei giochi da bambini. “Se non ritornerete come questi fanciulli”, del resto…
Accade così, se si mettono insieme una drammaturgia al tempo stesso dura e surreale, ma anche poetica, sospesa e capace di garbo, ferocia e ironia, come è “Assassina” di Franco Scaldati, con la capacità attorale di un tandem anche registico collaudato quale Enzo Vetrano e Stefano Randisi, scuola Leo De Berardinis. Accade, così, che la sinergia si trasformi in un lavoro, che ha la cura attenta e sapiente della bottega, senza in nulla abdicare dal professionismo. Ci vuole tutto questo, per fare teatro: un lavoro attento, minuzioso e scrupoloso, eppure la capacità di dissimularlo nella levità di un recitato, che sembra quasi non esserlo. Ruba i colori alla più grottesca delle farse quotidiane. senza perdere la leggerezza e la possibilità di riderne o di commuoversi nel ritrovare il peso specifico dell’umana commedia o della divina tragedia. La scena stessa già da subito ci spiazza. E’ lo spaccato di un’intimità domestica ancestrale, fatta di muretti a secco, madonnine di Lourdes bianche e celesti, di quelle che un tempo abitavano tutte le grotte più o meno artificiali in cui fosse giunta vestige dell’umana devozione, lumini per il culto quasi pagano di Lari prossimi e oggetti di una quotidianità frugale e di sussistenza. Il piastrellato, che dà una parvenza di civiltà a quel mondo che ha la contiguità della stalla con le bestie, l’acqua e l’espletazione dei bisogni primari, è “d’un azzurro di stoviglia”, per dirla con Gozzano, che rimanda immediatamente al sempre gozzaniano “color nostalgia”, che centra immediatamente la tonalità emotiva della pièce.
E cosa succede, in questa sezione, a dire il vero poco aurea, ma, al contrario, massimamente umana? Succede che, nel suo degradare osmatico, in cui il dentro o il fuori si confondono, si mescolino anche l’alto e il basso, il comico e il tragico, il macchiettistico e il grottesco, l’io e il non-io, declinandosi nelle mille sfaccettaure di un ego peterpanescamente intento a inchiodare la propria ombra o a cancellarla versandole addosso della varichina; succede che il doppio si replichi in tutte le varianti del più surreale “Delirio a due”, degne di un Ionesco. Succede che la vita ci si mostri come una perfida assassina, subdolamente annidata nell’intimo del nostro stesso esistere, da dove cova e tace, fino a ché non si manifesta, quasi forse solo per un caso fortuito, un’anomalia di gestione di mondi possibili e forse solo paralleli. E’ un cortocircuito, che manda all’aria le nostre fragili certezze. E’ la sconfitta della res cogitans, ma anche lo sberleffo divertito di una res extensa, che proprio non ci riesce, a far quadrare i conti. Se Via della Mosca Volante, 50, piano terra è la casa di lei, la vecchia, e se lei, Vussia, è ancora signorina e non ha mai conosciuto uomo, certo non può essere, quella stessa casa, da sempre dimora anche di lui, il buffo omino, forse confuso dal sonno o dal vino, che pretenderebbe di esserne, a pari titolo, legittimo inquilino. Eppure non si conoscono, rivendicano, e, con pari veemenza, ciascuno reclama a sé l’esclusiva e legittima domiciliarità in quella abitazione. Conducono vite del tutto simili, per certi aspetti (analoghi, i rituali e medesimi i nomi dati agli animali o le bizzarre consuetudini), eppure antitetiche ne sono le intenzioni. Se la vecchia (Enzo Vetrano), che indugia in una quasi accanita demonizzazione di tutto e tutti, mossa da una diffidenza feroce e ridicolmente sadica, è la maschera caricaturale di un iper realismo, che fa di lei un personaggio grottesco, lui (Stefano Randisi) ha i colori surreali e lunari di un sogno ad occhi aperti, che svapora nella figura di certi santi folli, ma con minor impeto e maggior liricità. Un personaggio quasi felliniano, lui, mentre lei, il suo alter ego, incarna certe megere bonariamente ridisegnate dalla cinepresa di certi film di Totò.
Ma non solo questo. C’è tutta la disarmante ferocia di vite forse inutili e ormai prossime al capolinea, ma che ancora auto ipnoticamente si perpetrano in giorni tutti uguali e ugualmente vani- Nessun ripianto, pare. A volte solo saettanti squarci di un non detto, che affiora, fulmineo, come un lampo d’inconscio, in quella cornice di monotonia. Fa da controcanto il coro dei fratelli Mancuso: la mamà e il papà, incorniciati nel quadrato prezioso di un raffigurazione vivente della “Donna barbuta” di Jusepe de Ribera, a parlarci di quell’umanità grottesca e anomala perle sue imperfezioni fisiche o psicologiche. Hanno funzione di prologo, epilogo e coro. Con le loro tonalità ancestrali, modularità arabe e strumenti ormai in disuso, sembrano quasi amuleti apotropaici, che fanno da contraltare alto a quella vita spesa nello spazio angusto di un ex vespasiano pubblico.
E poi tutta la struggente poesia prosaica e la bravura di attori che, ciscuno col suo colore, usano la propria espressività attorale con la maestria dell’intagliatore. E se è ipnotica, la precisione non curante e l’apparente naturalezza con cui Enzo Vetrano si fa donna bisbetica e avvelenata contro il mondo, sanguigna e sadica, ma poi anche scossa, nei momenti di più acuminata sdegnosità, da tic, fremiti, lampi di ipotesi (forse inconfessabili perfino a se stessa ma che pure guizzano), non di meno Stefano Randisi, che quasi sublima in questo personaggio leggero, seppur gravato da una vita tale, da non avergli concesso neppure il lusso di un nome. Ma chi sono? Forse l’una il reciproco dell’altro; o, forse, l’alter ego, la proiezione o l’ombra. Forse il corto circuito dell’illusione di come sarebbero potute andare le cose, a partire da altre premesse. O, forse, quello spirdu, quell’ombra, che si annida entro ciascuno di noi: l’irrazionale, capace di affiorare solo in certe notti della vita, quando le luci si astutano e si adduma, invece, la presenza magica di certi racconti di Garcia Lorca.
francesca.romana lino
Visto a Teatro Elfo Puccini di Milano, il 15 marzo 2017. (in replica fino a domenica 19)
in tournée
21 Marzo 2017: Teatro Mac Mazzieri – Pavullo nel Frignano, Modena
29 Marzo – 2 Aprile 2017: Teatro Biondo – Palermo
ASSASSINA
di Franco Scaldati
interpretazione e regia Enzo Vetrano e Stefano Randisi
scene e costumi di Mela Dell’Erba
musiche e canti originali composti ed eseguiti in scena dai Fratelli Mancuso
con Enzo Vetrano (la vecchina), Stefano Randisi (l’omino) e i Fratelli Mancuso (i genitori)
scene e costumi Mela Dell’Erba
luci Max Mugnai
Produzione ERT