LUGANO (Bellinzona) – Il pubblico che frequenta il teatro contribuisce a formare, insieme agli artisti ,una sorta di comunità la cui la funzione ritualistica è in grado di assumere un valore catartico, inteso come atto di purificazione: così come avveniva in modo esemplare nelle rappresentazioni teatrali nell’antica Grecia dove si affidava il compito di portare sulla scena vicende il più verosimili a quelle della vita reale, al fine di suscitare nello spettatore la capacità di indagare la propria coscienza, alla ricerca di quelle “colpe” per allontanarle dalla propria mente. Sono le emozioni suscettibili di provocare sentimenti di disagio o sofferenza insiti nella vista stessa di noi tutti. Una funzione liberatoria, come lo stesso Aristotele spiegava bene nella sua poetica: le passioni contenute all’interno dell’opera, una volta colte nella loro genesi, percepita la ragione stessa che le ha originate, perdono la loro carica emotiva e l’essere umano prova una sorta di sollievo curativo.
L’esperienza di assistere ad un dramma ha quindi uno scopo di cui tutti conosciamo i benefici. Il teatro ha questo straordinario potere e lo dimostra da sempre: anche in “Ifigenia, liberata” (che va in scena al Piccolo Teatro di Milano dal 28 aprile al 7 maggio prossimi), di cui Carmelo Rifici e Angela Demattè sono gli autori del testo, oltre alla regia firmata da Rifici che è direttore artistico del LAC – Lugano in scena (una coproduzione con il Piccolo) nonché direttore della Scuola di teatro del Piccolo. Un progetto drammaturgico di grande spessore artistico per il suo risultato che ha saputo cogliere le caratteristiche della violenza primigenia, insita nell’uomo: condizione inevitabile che sfocia anche nel rito sacrificale in nome di una supremazia di potere. Ed è proprio di un sacrificio umano che si parla in “Ifigenia in Aulide” di Euripide, l’opera da cui si sono ispirati Angela Demattè e Carmelo Rifici per riscrivere la tragedia, attraversando anche Omero, Eschilo, Sofocle, fino a toccare l’Antico e Nuovo Testamento; assemblandoli al pensiero filosofico di Friedrich Nietzsche, René Girard e Giuseppe Fornari.
L’esito era quello di comporre una scrittura drammaturgica, intesa come un tentativo di arrivare ad una conclusione che dimostrasse il superamento dell’obbligatorietà del rito sacrificale per dimostrarne la sua inutilità. Questo non accadrà e di conseguenza non si può che accettare il fallimento, scegliendo di raccontare l’impotenza stessa dell’autrice (sia reale che quella del ruolo) e del regista, nel riuscire ad esorcizzare il tema stesso della violenza, per distanziarsene come presa di posizione politica. Incapace di imporre la propria idea fino in fondo agli attori. Il regista Rifici spiega come il testo, scritto a quattro mani, si basi su una storia destinata a fallire, subendo loro stessi (autrice e regista nel ruolo teatrale) l’impossibilità di formare al loro interno una coesione tale da condividere il loro pensiero. Lo sviluppo drammaturgico crea un doppio livello di lettura: la rappresentazione teatrale vista come una prova in corso dove gli attori e le attrici si impegnano nel dare vita, insieme al regista e alla drammaturga, al Mito degli Atridi, cercando di svelarne gli arcani segreti su cui si basa la tragedia greca, e l’intuizione geniale di traslare in parallelo la difficoltà stessa di arrivare ad esito scenico compiuto.
Il pubblico viene coinvolto in prima persona ogni qual volta che il regista (un misurato Tindaro Granata), abile nel “governare” il processo creativo e meta – comunicativo, a cui Rifici consegna un ruolo di portavoce che affronta gli ostacoli disseminati nel testo della drammaturga (Mariangela Granelli), la cui interpretazione è talmente convincente da farci credere che non sia solo finzione e immedesimazione, quello che le viene chiesto di interpretare. Affrontare il tema della violenza e del sacro, indagarlo per riuscire a dimostrare come nasca, non per volontà dell’eroe greco considerato non colpevole – come spiega Rifici nelle sue note di regia – ma della folla che ha sempre bisogno di avere un colpevole. Nasce poco alla volta un viaggio immersivo nel mito che viene smitizzato man mano che l’agire degli attori crea delle situazioni in cui la prova teatrale si contamina di quel senso di reale che ci circonda quotidianamente. La potenza espressiva aumenta sempre più nel dettato registico capace di assemblare per quadri scenici, la narrazione della tragedia, alternata a incursioni “fuori scena”: lo sguardo diventa pretesto per dire al mondo stesso quanto sia tragica la nostra vita costellata di guerre fratricide, di vittime sacrificali in nome di un’egemonia che tende a imporsi come pensiero unico dominante.
Da una parte il regista e la drammaturga che devono affrontare gli attori nel tentativo estremo di difendere la loro idee, e dall’altra la presa di posizione della Compagnia e a turno dei singoli attori, la cui partecipazione è corale nel riuscire ad uscire ed entrare nei ruoli previsti dal doppio registro interpretativo. Il regista Rifici assegna al “regista” Granata il compito arduo e difficile di divulgare sia agli attori che al pubblico ciò che accade in scena, spiegandone i rimandi culturali e filosofici, legandoli tra loro. I personaggi del dramma si alternano con le coscienze reali dell’uomo e della donna. Il tema conduttore del sacrificio viene sezionato chirurgicamente, discusso, messo in crisi, ricondotto alla notte dei tempi con la citazione di Caino e Abele, la primordiale apparizione dei primi ominidi sulla Terra, riferimenti come quello del sacrificio di Cristo toccano anche l’aspetto prettamente religioso.
Il risultato appare del tutto omogeneo, nonostante la complessità affrontata per la costruzione stessa del lavoro: i linguaggi espressivi si intersecano (le immagini riprese in diretta nel retro palco, quelli sulla scena per amplificare i simboli mitologici, le varie azioni che si susseguono immerse nei colori di un rosso accesso e carico di rimandi metaforici: il sangue innocente offerto per ottenere i favori degli dei. Ifigenia (la bravissima quanto commovente Anahì Traversi) capace di affrontare un ruolo impegnativo, dove si passa da un’ iniziale angoscia di essere stata scelta come vittima, al convincersi lei stessa della necessità di immolarsi per una giusta causa, sull’altare sacrificale, spinta dal volere del padre Agamennone (il convincente Edoardo Ribatto)un padre re, nobile quanto determinato nel suo agire. La lotta estrema e la rassegnazione della madre Clitennestra (Giorgia Senesi) elegante, dalla presenza scenica che cattura l’attenzione di tutti, disposta alla fine a offrire la vita della figlia affinché la flotta possa salpare, sospinta dal vento e inviata per la conquista di Troia.
Mito e verità: un sacrificio che non verrà mai compiuto. Finzione e realtà come il teatro ci insegna, sono aspetti complementari da cui non si può prescindere. La violenza si palesa nelle scene drammatiche proiettate sullo schermo, frammenti di un mondo sconvolto dal terrorismo e da conflitti disseminati un po’ ovunque che ci dicono come non sia cambiato nulla da secoli. L’immagine stessa ci conduce fuori dal teatro ma in realtà diventa strumento privilegiato nel testimoniare la drammaticità anche sconvolgente dei crimini commessi. Una contaminazione di generi che non sorprende comunque, vista la necessità di agganciare ciò che ci appartiene, e di cui il teatro si fa portavoce nel denunciare quanto di più orribile possa commettere l’uomo verso i suoi simili. Non si può restare indifferenti ad una rappresentazione di tale livello. La scena ideata da Margherita Palli si presenta come una maestosa sala prove che incute quasi un timore reverenziale all’atto di entrare in platea, dove gli attori sono già presenti.
Tutto accade a vista senza artifici teatrali in cui è la partecipazione stessa di tutti gli interpreti, a sostenere fino alla fine la tensione necessaria, ognuno dei quali sa tenere con esiti sempre convincenti la scena. Le bravissime Caterina Carpio e Francesca Porrini (nei ruoli delle Corifee) chiamate a unire le varie scene. Giovanni Crippa nel doppio ruolo di Calcagno e di un vecchio che esalta le sue doti umane di saggio. Il Menelao di Vincenzo Giordano e Odisseo interpretato da Igor Horvat. Il musicista Zeno Gabaglio.
Il messaggio della “liberazione” di Ifigenia, appare vivido e lucido e in grado di portarci a credere che sia ancora necessario un teatro capace di rischiare sempre, per affermare e diffondere la sua voce nel mondo, in difesa di una libertà e di una giustizia che non può venire mai meno. Dove ancora la forza della parola viene difesa strenuamente perché il regista Rifici e la drammaturga Demattè per voce di Tindaro Granata, denunciano la crisi del linguaggio: “Forse è questo il problema: abbiamo semplificato la parola, svuotata di senso. Abbiamo tentato di sostituirla con immagini suggestive, potenti, ma con l’effetto di non sapere più ascoltarla.. (…) non saremmo mai arrivati alla paura dell’altro, all’odio, se avessimo avuto il coraggio di usare bene le parole, di prendercene cura”. Le ultime battute pronunciate dall’attore vengono spese per difendere la “parola” e nel momento stesso che termina lo spettacolo, risentiamo il suo suono come un eco che rimbalza all’infinito.
Visto alla Sala Teatro LAC di Lugano in prima internazionale l’11 marzo 2017
Al Piccolo Teatro Strehler
dal 27 aprile al 7 maggio 2017
Ifigenia, liberata
ispirato ai testi di Eraclito, Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide, Antico e Nuovo Testamento, Friedrich Nietzsche, René Girard, Giuseppe Fornari
progetto drammaturgia Angela Dematté e Carmelo Rifici
regia Carmelo Rifici
con (in ordine alfabetico) Caterina Carpio (Corifea/Ominide), Giovanni Crippa (Calcante/Vecchio/Platone), Zeno Gabaglio (musicista), Vincenzo Giordano (Menelao),Tindaro Granata (regista), Mariangela Granelli (drammaturga), Igor Horvat (Odisseo), Francesca Porrini (Corifea/Ominide), Edoardo Ribatto (Agamennone), Giorgia Senesi (Clitennestra), Anahì Traversi (Ifigenia)
scene Margherita Palli
costumi Margherita Baldoni
maschere Roberto Mestroni
musiche Zeno Gabaglio
disegno luci Jean-Luc Chanonat
progetto visivo Dimitrios Statiris
in video Maximilian Montorfano, Jacopo Montorfano e Agnese Chiodi
produzione LuganoInscena
in coproduzione con LAC Lugano Arte e Cultura, Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa e Azimut
in collaborazione con Spoleto Festival dei 2Mondi, Theater Chur
con il sostegno di Prohelvetia, Fondazione svizzera per la cultura