MILANO – “L’Italia è la terra dei festival”, è stato detto. E, in estate più che mai, da nord a sud ne fioccano per tutti i gusti e occasioni. Come se i meravigliosi angoli del nostro bel Paese di per sé non bastassero a risvegliare i turisti ancora intorpiditi dal lungo letargo invernale; come se occorresse un rinforzo – non importa se enogastronomico, fieristico o culturale – per convincerli a mettersi in viaggio. Questo lo hanno capito bene soprattutto gli amministratori di quelle regioni che, a fronte di un patrimonio artistico o paesaggistico invidiabile, poi non dispongano di risorse differenti se non investire in cultura, come si dice, o in turismo.
Proprio in questi giorni, infatti, iniziano a troneggiare i cartelloni pubblicitari con slogan che ricordano: “L’Umbria, il cuore verde d’Italia” e, mutatis mutandis, per Abruzzo, Calabria, Molise. E di festival se ne sente parlare in continuazione, al punto che iniziano a comparire siti specializzati come Trovafestival, che, in meno di tre mesi, ha censito quasi 400 festival nel solo settore artistico-culturale.
E’ in questo contesto che s’inserisce il festival “SENSES, The Sensory Theatre”. Più che un semplice festival, il risultato di una sinergia internazionale, che vede in scena, da metà a fine maggio, gli stessi tre spettacoli, che si avvicendano nelle piazze gemelle di Galati, in Romania, Avignone, in Francia oltre che a Milano, negli spazi del Salone via Dini, da quest’anno affidato alla direzione artistica di Pacta dei Teatri (in un progetto di coinvolgimento della cittadinanza di una zona dell’estrema periferia sud). L’intento comune è quello di far circuitare spettacoli capaci non solo di sollecitare il pubblico da un punto di vista sensoriale, ma, non meno importante, è stimolarne lo spirito critico, inducendolo a riflessioni di portata esistenzial-filosofica.
Tre, i titoli in programma: “Les yeux fermés”, drammaturgia di Maddalena Mazzocut-Mis e Tancredi Gusman per la regia di Stephen Pisani (liberamente ispirato a “I ciechi” di Maurice Maeterlinck, dal 24 al 25 maggio) e “Il Re Cervo” opera di Angelo Inglese (dalla fiaba di Gozzi), libretto e regia di Paolo Bosio, il 27 e 28 maggio. A inaugurare la kermesse, dal 16 al 20 maggio, “Solaris” (dall’omonimo romanzo capolavoro della fantascienza filosofica di Stanislaw Lem, 1961, portato sugli schermi da Andrej Tarkovskij, undici anni dopo), regia di Paolo Bignamini a partire dalla drammaturgia di Fabrizio Sinisi con il contributo (come anche per gli altri due titoli) di laboratori con studenti dell’università di Avignone, qui (per “Il Re Cervo” dell’università Statale di Milano e di entrambi, oltre che anche di corsi dell’Accademia di Brera, per “Les yeux fermés”).
La trama racconta, con un’essenzializzazione ridotta all’osso, della missione di recupero della stazione orbitante attorno a Solaris. Misterioso e non meglio identificato pianeta, palcoscenico di strani fenomeni, ci viene raccontato quale oggetto di una prima missione scientifica; persi i contatti con l’equipaggio, era stato poi inviato lo psicologo Kris Kelvin con l’esplicito compito di riportare sulla Terra eventuali superstiti. Le atmosfere sono quelle inquietanti dell’incubo, in cui dominano la paura, il rimpianto e una costante quanto destabilizzante messa in discussione della realtà fino a interrogarsi sul senso della verità, della dovere e dell’essenza stessa dell’essere umano, oltre che del suo destino. Soprattutto il protagonista, interpretato da un Giovanni Franzoni, con cui è impossibile non identificarsi, presto diventa egli stesso arena di tutto quel residuo filosofico-esistenziale, che sta alla base del romanzo di Lem, più ancora che della trasposizione cinematografica di Tarkovskij.
È lui infatti che subisce l’intero arco drammatico: giunto sulla stazione orbitante dopo aver invano tentato un contatto via radio, costante e che ci dà la misura dell’avvicinamento e del tempo che passa, non può che approdarvi con tutto il carico di domande, dubbi e curiosità di chi non sappia bene cosa aspettarsi eppure, da scienziato, senza lasciare che la sua umana paura possa in alcun modo inquinare la lucidità del suo procedere. Così, se all’arrivo ha ancora il sapore del visitatore imparziale mosso da sete di conoscenza, ben presto viene travolto da una serie di eventi (che nella riduzione teatrale, per brevità, vengono di fatto ridotti alla sola destabilizzante apparizione e poi relazione col sembiante di Hari, la moglie suicidatasi dieci anni prima), che lo porteranno alla più radicale messa in crisi di tutto. Suo alter ego e polo dialettico, sulla scena, è Antonio Rosti. In parte dottor Snaut, in parte dottor Sartorius, interpreta le due facce della “scienza”: quella soccombente all’allucinazione/invasione dei “visitatori” (le strane forme di vita agglomerate di neutrini, la cui consistenza è data solo dal fortuito caso di un eccezionale campo magnetico nell’oceano di Solaris) e quella razionalista e negazionista, ovvero il solo modo per sopravvivere alla fallacia delle percezioni sensoriali, grazie a una costante e volontaristica sovrascrizione di quanto l’incontrovertibilità del ragionamento impone. E’ lo scontro titanico fra ragione e sentimento, dovere e ricerca della felicità, volontarismo superomistico e umana, troppo umana capitolazione.
A questo già di per per sé complesso ed ingarbugliato “dualismo à troix” (il monstrum a due teste dello “scienziato” e, in relazione dialettica, lo sguardo teoricamente a-pregiudiziale dello psicologo), si giustappone la presenza quasi parallela del visitatore dalle sembianze di Hari. Da debole fantasma, quasi residuo larvale di un incubo, questo personaggio (interpretato da una Debora Zuin di schietta formazione accademica) si trasforma nel reale perno di “crisi” del protagonista. Mentre lei acquisisce una consistenza, inizialmente fornitale solo dalla labile traccia dei ricordi di Kris, lui perde via via il controllo di sé, lasciandosi inondare dal fluire di tutti quei ricordi, emozioni, rimpianti, dubbi e pentimenti, che lei rendono sempre più consistente e forte, fino al punto da rendersi conto dell’insostenibilità della situazione e (im)porgli fine. Operazione teatrale certo interessante, questo “Solaris”, prodotto da SceanApertaAltomilanese Teatro in collaborazione con Compagnia Lombardo-Tiezzi: accoglie la sfida di riprodurre, all’interno di un linguaggio e di un registro ancora una volta differente da quello originario, una molteplicità di significati e codici stratificati e dalla densità vischiosa, che difficilmente può essere restituita a teatro. Perché il teatro è azione e ineffabilità: quanto di più distante dal ritmo specifico della riflessione filosofica, che spesso impone cautela nell’incedere e la possibilità di “riavvolgere il nastro” (o “tornare in dietro di una pagina”), sconosciuta all’arte di chi è fatto della stessa sostanza dei sogni.
Il ché non significa che il teatro non possa essere anche un luogo di riflessione, denuncia o progettazione, in una qualche misura; certo è, però, che il rischio è quello di perdere il ritmo e con quello, l’attenzione della platea. Così, ben supportati da una scenografia piuttosto basica nella sua simbologia (il pianeta, rosso, quasi a significarne il pericolo) e da una regia dalla schietta intelligibilità (un luogo principale preposto, in maniera quasi esclusiva, per ciascuno dei tre personaggi; movimenti scenici espliciti nell’ottica della lettura dei rapporti fra i contendenti), se i tre attori, pur ciascuno col proprio colore attorale differente e autonomo, hanno saputo tener testa al non facile compito, il copione ha talvolta rischiato di diluire la sua portata di dialetticità, ipotecandola, forse, a tesi già sposate in partenza – complice anche un ritmo, necessariamente lento, in alcuni passaggi chiave, ma che certo, alla lunga, non ha facilitato il compito al provato pubblico.
Visto a Milano, Pacta dei Teatri, salone via Dini, il 19 maggio 2017.