Culture — 10/06/2017 at 09:51

Come formare un nuovo pubblico? Il teatro si interroga

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ALBENGA – Interrogarsi sulla funzione sociale del teatro e individuare quali strategie funzionali ad una crescita culturale nella partecipazione, pubblico compreso. L’intento di sviluppare delle buone pratiche capaci di intercettare il potenziale spettatore. Un confronto per individuare strategie funzionali ad una partecipazione attiva ai processi di evoluzione e trasformazione culturali e artistici. Il teatro è una comunità in cui agiscono più soggetti e tutti possono contribuire alla sua crescita per far si che non decada in genere di intrattenimento fine a se stesso. Riportare al centro del dibattito il rapporto tra artisti e pubblico, è stato il focus che ha riunito ad Albenga per due giorni direttori artistici, critici teatrali e appassionati di teatro, su invito di Kronoteatro che ha ideato il forum di discussione insieme ad Elena Lamberti: “La formazione del nuovo pubblico”.

In preparazione del convegno che ha visto la partecipazione di molti critici, direttori di teatro e festival, operatori e spettatori qualificati, era stata inviata la “Lettera programmatica per il Piccolo Teatro di Milano” scritta nel 1947 da Mario Apollonio, Paolo Grassi, Giorgio Strehler e Virgilio Teri, i fondatori del Teatro divenuto negli anni il più importante a livello nazionale e con una risonanza internazionale tale da chiamarlo Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. La stesura del documento programmatico contiene 7 indicazioni finalizzate ad una creazione di un teatro che torni ad appropriarsi della sua “necessità primordiale: il luogo dove la comunità adunandosi liberamente a contemplare e a rivivere, si rivela se stessa. Dove s’apre alla disponibilità più grande, alla vocazione più profonda, luogo dove fa la prova di una parola da accollare o da respingere, di una parola che accolla, diventerà domani un centro dal suo operare, suggerirà ritmo e misura ai suoi giorni. I quattro firmatari si dichiaravano intenzionati a proporre un teatro in cui cercare la legge operosa dell’uomo, del poeta, che può offrire un’immagine necessaria solo se la si cerca nel profondo della sua sostanza viva. Dell’attore che nel dar vita al fantasma mimico prodiga la sua stessa esigenza di creatura umana; e soprattutto degli spettatori, che, anche quando non se ne avvedono, ne riportano qualcosa che li aiuta a decidere nella loro vita individuale e nella loro responsabilità sociale”.

 

 

Tra questi argomenti trattati c’è quello sulla “Civiltà dallo spettacolo” in cui si sostiene con molta convinzione la necessità di respingere “l’idea, che tanto spesso s’affaccia agli uomini di teatro, di rimediare con gli accorgimenti dell’arte all’insufficiente sostanza di un testo”, proponendosi di “influire sul costume del popolo, abituarlo a vigliare sul divario tra la parola e le intenzioni, abituarlo o riabituarlo alla dignità e alla coerenza, ad una integrità di vita che abolisce le lacune, le insufficienze, le approssimazioni. Nel paragrafo 7 “Perché un piccolo teatro” si fa presente come sia fondamentale l’apporto del pubblico (…) “recluteremo i nostri spettatori: quanto più possibile, nelle scuole e nelle maestranze, con forme d’abbonamento che sollecitino e aiutino l’assiduità dell’intesa. Non dunque teatro sperimentale aperto sull’indefinito, sul possibile e sull’impossibile, e nemmeno teatro d’eccezione, chiuso in una cerchia di iniziati”. Maurizio Sguotti ed Elena Lamberti hanno sollecitato il dibattito cogliendo da qui quanto possa essere realistico pensare ad una concezione educativa del teatro che per realizzarsi necessità di un’avanguardia composta da “tecnici” del teatro e da un nucleo di spettatori attivi, ponendosi una serie di domande su come agire in funzione di un reclutamento mirato a formare nuovo pubblico; chiedendosi “quale funzione sociale possa assumere il teatro ai nostri giorni?” “Come coinvolgere maggiormente il pubblico, aldilà di un compito di pura assistenza passiva alla rappresentazione?”

 

Oliviero Ponte di Pino

 

Il convegno di Albenga si è fatto carico di affrontare una questione di fondamentale importanza: farsi carico responsabilmente della crescita culturale di un paese con strumenti idonei e qualificati. Il teatro visto come possibilità di aggregazione sociale condiviso e partecipato. Gli argomenti affrontati hanno dimostrato quanto sia importante per chi fa teatro sensibilizzare gli spettatori, le loro impressioni che possono determinare scelte da intraprendere al fine di incentivarne la partecipazione. Nel gruppo coordinato da Oliviero Ponte di Pino, con la partecipazione tra gli altri di Simone Pacini, Francesca Serrazanetti, Andrea Paolucci, Isabella Lagattola, Roberto Rinaldi, Laura Caruso, sono emerse diverse criticità le cui conseguenze vanno ad incidere sugli scarsi consumi culturali e teatrali. È emersa la necessità di riscoprire la funzione aggregativa che il teatro possiede al fine di incentivare la partecipazione. Una delle proposte avanzate è quella di offrire dei percorsi che utilizzino strumenti di lettura del meccanismo teatrale (lo spettacolo), sia prima che dopo, mettendo in evidenza l’importanza di far incontrare il pubblico con le compagnie, durante la rappresentazione negli intervalli (nel foyer luogo di socializzazione per farlo diventare una piazza coperta) e quindi tra gli stessi spettatori come scambio tra persone reali.

 

Tra le ipotesi proposte anche quella di un coinvolgimento al termine della rappresentazione. Un accompagnamento/partecipazione che non sia solo presenza passiva. Stefano Tè direttore artistico del Festival Trasparenze di Modena esserci-leco-delle-voci-che-giungono-da-trasparenze-di-modena ha portato l’esempio della Konsulta Giovani e del gruppo spettatori erranti, a dimostrazione che il vero coinvolgimento parte dalla base, da una piattaforma che includa i giovani a cui viene affidata la responsabilità di partecipare con azioni concrete di scelta artistica, discussione e condivisione del progetto artistico. Molti sono stati gli spunti per individuare nuove strategie riconducibili alla necessità di coinvolgere nuovi spettatori.

 

 

Stefano Tè Teatro dei Venti

L’allargamento dell’offerta teatrale pensata nello specifico per un pubblico giovanile smontando i tanti pregiudizi responsabili nel far credere che il teatro sia solo adatto ad un pubblico (specialmente femminile over 45), quindi pensato per adulti e non attraente per un giovane di 20 anni abituato a ben altri stimoli come potrebbe essere un concerto rock. Porsi degli obiettivi capaci di stimolare la partecipazione delle nuove generazioni e tra le possibili soluzioni c’è quella che vede la presenza di mediatori (i critici impegnati nei processi di scrittura che fanno formazione nei laboratori, sono un tramite tra l’artista e il pubblico), per insegnare a vedere lo spettacolo con occhi diversi e veicolare una partecipazione più attiva nello spettatore. Entrando a teatro ci si ritrova di fronte alla cassa al front office, e la persona che ci sta di fronte spesso è l’unica con la quale entriamo in relazione. Può apparire una banalità ma l’accoglienza che riceviamo può determinare nello spettatore un motivo in più per sentire il desiderio di ritornare. Non avrà modo di relazionarsi se non con una donna o un uomo a cui chiedere il biglietto. Altro problema affrontato nella discussione è quello del costo dei biglietti. Un deterrente per molti nell’andare a teatro è la convinzione che costi troppo.

 

 

Andrea Paolucci direttore artistico e regista Compagnia Teatro dell’Argine ITC

Un esempio a favore della possibilità di far partecipare i giovani è stata presentata da Andrea Paolucci di ITC Teatro di San Lazzaro di Savena (Bologna), con il biglietto ad un solo euro per gli under 18. Le strategie per facilitare l’acquisto dei biglietti è di fondamentale importanza e la formula degli abbonamenti come ha ricordato Isabella Lagattola del Festival delle Colline torinesi si è dimostrata vincente. Il coinvolgimento delle comunità straniere, il baby sitting teatrale, i laboratori didattici, sono aspetti che ruotano intorno ad un livello di riattivazione della vita culturale, civile, sempre più auspicabile per innescare nuovi consumi in un ecosistema che permetta di aumentare la qualità della vita. Soluzioni che sono state discusse, analizzate, confrontate per condividere un pensiero comune allargandolo ad un confronto permanente, necessario anche alla luce di quanto accade nel nostro presente: chiusura di teatri, cancellazione di festival a pochi mesi dall’inizio (Chiusi è l’ultimo in ordine di apparizione), finanziamenti decurtati. Un segnale d’allarme che non può restare inascoltato.

Isabella Lagattola Sergio Ariotti

La discussione del gruppo guidato da Tommaso Bianco e formato da Sergio Ariotti, Daniele De Paolis, Lorenzo Donati, Chiara Giallombardo, Tommaso Giulla, Antonietta Magli, Silvia Nisci, Angelo Pastore, Maria Dolores Pesce, Roberto Scappin, si è interrogata su diversi quesiti, intorno ai quali si è sviluppata la giornata dedicata alla “formazione del nuovo pubblico”: “Come sono accolti i lavori di tipo meno tradizionale? Essere una piccola comunità influisce sulle scelte della programmazione? Essere un piccolo teatro favorisce la visione di certi spettacoli e la percezione emotiva del pubblico?”

Chiara Giallombardo spiega che “un primo elemento emerso nel dibattito è stato quello relativo ai lavori di drammaturgia contemporanea, verso i quali il pubblico, a differenza della prosa classica, mostra tendenzialmente maggiore diffidenza. Questo dato è comprensibile analizzando un fattore metodologico e storico. Dal punto di vista metodologico, infatti, la drammaturgia contemporanea si presenta come un teatro di testo e questo spiega come mai sia più forte in Paesi in cui si scrive moltissimo (come, ad esempio, in Irlanda). In Italia ha influito molto il fatto che non si sia mai affermata la figura del dramaturg, che opera nei teatri e svolge un importante lavoro di riscrittura, e questo perché, storicamente, i grandi attori hanno sempre prevalso sui drammaturghi. Tuttavia non è corretto parlare di ‘pubblico’ in generale: è necessario analizzare i segmenti di pubblico“.

Nel dibattito, infatti, è emerso come ci sia un pubblico tradizionalista, poco aperto alle novità, e un pubblico più moderno, quindi meno legato alla tradizione. Conoscere le istanze dei diversi segmenti di pubblico è fondamentale non solo per compiere un’analisi più dettagliata circa l’accoglienza di lavori di tipo meno tradizionale, ma anche per scegliere una strategia comunicativa efficace. I più giovani, infatti, sembrano preferire i social network, sono attenti al linguaggio e alla grafica utilizzati sulle pagine di facebook o twitter, a differenza di quel segmento di pubblico più tradizionale che predilige una comunicazione diversa. Proprio sulla questione generazionale si è poi incentrata la nostra discussione, partendo dalla mancanza di giovani tra i 18 e i 25 anni a teatro. I ragazzi sono forse molto legati ad un’idea di teatro come intrattenimento alto borghese, che potrebbe essere però superata, come si diceva prima, attraverso un linguaggio comunicativo più giovanile. Tuttavia, oltre la comunicazione, fondamentale è senza dubbio puntare sulla formazione nelle scuole, la quale però non deve concretizzarsi in un obbligo di visione di spettacoli complessi senza aver prima fornito una preparazione adeguata, ma in un vero e proprio percorso educativo. Questo modus operandi, infatti, rischia di provocare un allontanamento dall’ambiente teatrale una volta terminate le scuole superiori, perché il teatro verrà percepito come qualcosa di pesante e noioso.

Bisogna dunque andare per gradi, preparare i ragazzi al fine di suscitare in loro l’interesse per il teatro. Inoltre, in Italia, diversamente da quanto accade, per esempio, in Germania, i teatri non sono spazi aperti, in cui le persone possano incontrarsi indipendentemente dalla visione dello spettacolo. Questo è un limite non da poco, soprattutto se si considera che il teatro come spazio aperto è funzionale ad un obiettivo ambizioso ma fondamentale per la formazione del nuovo pubblico: la trasformazione di quest’ultimo in comunità.

Con ciò intendiamo l’esigenza di superare quel paradigma caratterizzato dal pubblico riunito in un determinato momento nel mero atto di partecipazione allo spettacolo, a favore di un modello che vada oltre l’occasionalità, incentrato su un gruppo di persone (una comunità, appunto), legate sì dal teatro ma in senso più ampio: teatro come incontro, confronto, riflessione, insieme di valori e, perché no, divertimento. Un ulteriore aspetto su cui ci siamo soffermati (rectius: su cui ci siamo dovuti, purtroppo inevitabilmente, soffermare) è la crisi economica, che ha avuto un impatto devastante sulla cultura: il fondo unico per lo spettacolo ha a disposizione il 50% in meno delle risorse rispetto a trent’anni fa. La crisi economica ha costretto gli artisti a dover tenere conto prima di tutto dell’aspetto economico/commerciale e questo ha avuto spesso come conseguenze soluzioni non soddisfacenti sul lato artistico.

È dunque necessario il dialogo con il potere politico ma è possibile oggi per il mondo del teatro fare pressioni sulla politica? Forse si ma purtroppo l’idea prevalente tra i governanti è che non vi sia un ritorno utile nell’investimento nella cultura. Non c’è la percezione della gravità della sua mancanza, che però ha un forte impatto anche sulla stessa economia, che non può funzionare senza un alto livello culturale. Tuttavia il potere politico per definizione non ha interesse a finanziare uno strumento che dia all’elettorato la possibilità di riflettere e autodeterminarsi, di sviluppare uno spirito critico, che fornisca categorie di decodificazione del mondo. Il teatro dovrebbe dunque allineare i propri interessi a quelli dell’economia. Se cultura = turismo, allora aumentare gli spettatori è condizione necessaria per poter richiedere più fondi. D’altra parte, non si può ridurre l’arte ad una operazione puramente economica. Per essere più incisivi sulla politica, per trovare un modo per resistere, bisognerebbe costituire quella che abbiamo definito una “lobby buona”, coinvolgendo le migliori menti del teatro affinché elaborino un progetto e lo presentino, poi, al politico.

Abbiamo sottoposto delle domande ai direttori artistici presenti al Convegno.
1 Quante volte, se vi capita, scegliete gli spettacoli da inserire in programmazione per la fiducia verso un artista?
2 Quali sono i criteri con cui fate una programmazione?
3 Nel caso in cui abbiate scelto degli spettacoli a scatola chiusa, ritenete che la vostra programmazione sia stata efficace?
Angelo Pastore, direttore artistico del Teatro Stabile di Genova

1 e 3) L’artista e la produzione sono un riferimento importante, quindi la fiducia in loro conta e, di conseguenza, la scelta non è mai “a scatola chiusa”, pur non avendo visto lo spettacolo.

2) La programmazione viene fatta non sulla base del gusto personale, ci sono fattori importanti da considerare:

1. In che contesto operi ?

2. Che identità hai? Se sei un soggetto produttivo, infatti, devi partire dalla tua identità.

3. Variabili che influenzano la programmazione

a) il budget

b) lo spazio a disposizone

c) nella scelta della programmazione, il direttore ha l’obbligo di contattare tutti i segmenti di pubblico.

Sergio Ariotti, direttore artistico del Festival delle Colline Torinesi
1) La programmazione di un festival si basa sulla fiducia negli artisti. Non si fanno mai programmi con riflessioni a tavolino, ma confrontandosi con i protagonisti del teatro: gli artisti e il pubblico. Il direttore svolge un lavoro di mediazione culturale.

2) Non ci sono criteri a priori. Si cerca di trovare un filo rosso tra gli spettacoli, che potremmo quindi definire “criterio della continua discussione di quello che fai”.

3) Se conosci gli artisti, ti puoi fidare. Idea di tutela dello spettacolo. In questo senso, in ottica di tutela, molto spesso sono i direttori che, proteggendo/accompagnando gli artisti, svolgono la funzione che si potrebbe assimilare a quella del dramaturg.

Domanda per i critici

Alcune volte scrivete recensioni e presentazioni con termini poco comprensibili al pubblico comune. Perché non vi mettete sullo stesso piano dello spettatore? Non mi interessa uno sfoggio di cultura, vorrei che mi diceste, in termini semplici, cosa avete colto dello spettacolo che io non ho intuito. La vostra funzione è importante, ma spesso è chiaro che scrivete pensando di rivolgervi solo agli addetti ai lavori invece che al pubblico comune.

Lorenzo Donati, Altre Velocità

Questa riflessione presuppone che esista ancora una figura critica di stampo novecentesco, è legata ad un sistema di informazione datato: è superata l’idea che la funzione della critica si esaurisca nello scritto. Ho sempre cercato di affermare che scrivere non è tutto. Il compito fondamentale della critica è diffondere una cultura teatrale e, dalla seconda metà del Novecento, la domanda centrale è diventata: come riuscirci? C’è un’esigenza, dunque, di ampliare il territorio della critica, di elaborare progetti che non siano soltanto scrittura.

Domanda per il pubblico

Cosa spinge a scegliere quali spettacoli vedere a teatro? Il nome? La lettura delle recensioni? La fiducia nella programmazione fatta dal teatro? Il passaparola?

Tommaso Giulla, studente, 20 anni

Senza dubbio la fiducia nella programmazione fatta dal teatro, meno il nome, non la recensione.
Hanno partecipato al Convegno “La formazione del pubblico” Oliviero Ponte di Pino, Isabella Lagattolla, Stefano Tè, Francesca Serrazanetti, Laura Bevione, Simone Pacini, Roberto Rinaldi, Andrea Cerri, Laura Caruso, Andrea Paolucci, Maddalena Giovannelli, Renzo Francabandera, Lucia Medri, Stefano Romagnoli, Roberto Scappin, Sergio Ariotti, Elisa Botero, Enrico Coffetti, Antonietta Magli, Maria Dolores Pesce, Lorenzo Donati, Roberto Pellerey, Angelo Pastore, Laura Santini, Francesca Romana Lino, Paola Vannoni,  Tommaso Giulla, Chiara Giallombardo. Stefano Romagnoli, Ilaria Cannas, Viola Lo Gioco, Tommaso Bianco, Tommaso Giulla, Daniele De Paolis, Alfredo Sgarlato.

 

Albenga 24 -25 marzo 2017

 

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