Recensioni — 20/06/2017 at 16:37

Sulle “Ali” della poesie dell’esistenza…

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BOLZANO – Scrive Kahlil Gibran che il primo pensiero di Dio fu un angelo, la prima parola di Dio fu un uomo. Con Ali, presentato in anteprima lo scorso 20 maggio al Teatro Studio del Teatro Comunale di Bolzano, Antonio Viganò cura la regia di una riedizione del suo spettacolo del 1993, che riesce ad essere una sorta di evoluzione spirituale della rappresentazione originaria, una sua rarefazione nella resa essenziale dei personaggi. Viganò mette in scena senza mezzi termini la poesia dell’esistenza, va dritto al nocciolo della condizione umana e la narra con poche parole ed efficaci coreografie, con quella brutale e necessaria semplicità che lo contraddistingue e che arriva al cuore di ogni spettatore, di qualunque età. Rilke, Handke, Wenders, Stevens e Benjamin le fonti d’ispirazione del testo, scarno e intenso. Sul palco, una pietraia, perché carica, appesantita è la condizione umana. Ma illuminata da tagli di luce rasoterra, perché anche nella nudità della roccia risplende la speranza. Nel mezzo, un palo della luce, un elemento ascensionale che ricorda la scala di Giacobbe. E, come nella storia di Giacobbe, un angelo e un uomo che si incontrano, che lottano, che si riconoscono a vicenda. Come scrive Rilke in Lettere a un giovane poeta: «L’amore consiste in questo, che due solitudini si proteggono a vicenda, si toccano, si salutano».

Ma l’angelo ha ali perdute, frantumate in una miriade di piume, disperse nel contatto terreno, nella compromissione con il greve umano, di cui invidia la capacità di potersi raccontare ed essere dentro a una storia, incistato in un personale divenire: «La mia storia. Unica». La pietraia, stagliata su un fondale azzurro  è tridimensionalità e corpo; la levità aerea delle piume, la speranza di essere qualcosa di più che concreta materia dolente intessuta di ricordi. Una dicotomia resa palpabile dalla scelta dei giovani attori, imperfettamente perfetti e assolutamente veri come solo gli attori di Viganò sanno essere, guidati da una regia curata e visionaria. Michael Untertrifaller incarna la purezza assoluta, con una morbidezza disarmante, una dolcezza ultraterrena. Jason De Majo sa essere terrigno, duro e fragile allo stesso tempo, compatto ed energico nella sua interpretazione, nella ripetizione di movimenti coreografici che rimandano alla terra, alla chiusura, l’imprecazione, all’urlo al cielo.

 

Disillusione e innocenza convivono sulla scena: un giovane uomo, i cui pensieri e le cui rappresentazioni si inseriscono nel mondo solo nella misura in cui riesce a dar loro valore con le sue azioni visibili (il sotterrare come metafora della volontaria dimenticanza); un angelo caduto in cerca della propria identità in un fare che ne costruisca una storia, che ne definisca i contorni esistenziali; imparare ad imparare è il segreto. Fino a ritornare, insieme, all’incanto primigenio: «Quando il bambino era bambino, / non sapeva d’essere un bambino, / per lui tutto aveva un’anima / e tutte le anime erano tutt’uno.// (…)Quando il bambino era bambino, / era l’epoca di queste domande: / “Perché io sono io e perché non sei tu? / Perché sono qui e perché non sono lì ?» (da Il cielo sopra Berlino, citazione da Peter Handke, Lied vom Kindsein). Solo nella piena accettazione del suo passato e della sua storia l’uomo può prendere piena coscienza della direzione in cui va la sua libertà e trovare il coraggio e la spinta per accettare ogni pezzo del puzzle e decidere di proseguire oltre, esplorando territori nuovi e scoprendo rotte e orizzonti impensati. Accanto a lui, il soffio lieve della propria parte spirituale, come giovane vento che rinnova e sospinge: «Porta il nostro destino questo vento. / Da chissà dove, questo vento nuovo, / sbandando sotto il peso di cose senza nome, / porta sul mare quello che noi siamo» (R. M. Rilke, Un vento di primavera).

 

Perché ciò sia reso possibile, per ricominciare su un nuovo mare, deve l’uomo passare attraverso la lotta con se stesso, con il più alto e puro Sé, qui coreografata come la lotta con quel piccolo daimon che, offrendosi a noi ­ gratis ­ ci fa guardare le nostre pietrificate memorie con occhi nuovi, sollevandoci dal peso, aiutandoci a “rompere la scorza del dolore in pezzi”, accompagnandoci per un tratto di strada, regalandoci piume e salvandoci dal désespoir. L’angelo cessa di essere un personaggio staccato, dicotomico, e diventa, dunque, la rappresentazione dell’uomo interiore. Ed ecco il dono finale: due cicatrici di sangue tra le scapole e qualche piuma, a ricordarci che le ali vere sono quelle che l’uomo, legato al cappio della contingenza e dell’impermanenza, può conquistarsi solo vivendo la propria storia. La doppia genesi dell’uomo come essere materiale e spirituale è evocata nelle coreografie minimali e ripetute, che scavano nel profondo dello spettatore come la recitazione di un mantra. Abbiamo bisogno di questa tensione tra cielo e terra, che ci regala una verticale nella quale essere quello che noi siamo e, al contempo, racchiude tutto ciò che possiamo essere.
Ancora una volta, in uno spettacolo senza filtri che colpisce dritto al cuore, Viganò mostra di essere un umanista che, con la sua arte, sa venire a patti con la metafisica ­ e gli riesce molto bene. Qui, grazie a due attori magnetici e a una delicatezza registica commovente, rende sul palco una poesia talmente limpida da essere quasi straziante. E la scena si colma di grazia.

ALI, di Gianluigi Gherzi, Remo Rostagno, Antonio Viganò; regia Antonio Viganò; coreografie di Julie Anne Stanzak; con Michael Untertrifaller e Jason De Majo produzione Compagnia La Ribalta – Arte della diversità/Kunst der Vielfalt.

 
Visto al Teatro Studio (Comunale di Bolzano) il 20 maggio 2017

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