Recensioni — 23/07/2017 at 10:06

“Shi”: il viaggio di Matteo Ricci da Macerata alla Cina dove canta Turandot

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MACERATA – Il video sull’intero sfondo si riempie di segni astratti e di grandi caratteri cinesi che la musica evoca, fa erompere sia dalle note “amiche” o tese dei due pianoforti (suonati dal vivo da Andrea Rebaudengo e Paolo Gorini), sia in unisono dalle tre postazioni di percussioni (del Tetraktis Ensemble), piatti, xilofono, tamburi e strumenti esotici, maracas incluse. Tra la musica profonda, composta e diretta da Carlo Boccadoro, e i video di Igor Renzetti si pongono in successione sul palcoscenico del teatro “Lauro Rossi” le fasi salienti della vita di Padre Matteo Ricci nell’opera da camera Shi, “Sia fatto” o “Così sia”, in prima assoluta al Macerata Opera Festival il 20 luglio (repliche il 26; e il 2 e 9 agosto).

Quelle fasi sono affidate in cinque scene alle parole dette o cantate sulla base del libretto di Cecilia Lagorio, anche regista. Esse però risultano del tutto svincolate da una drammaturgia, da uno svolgimento, sembrano “appunti” di un diario, per quanto sia il diario di una vita fuori dal comune. Un’avventura unica è stata infatti l’esistenza del gesuita Matteo Ricci, partito dalla sua Macerata nella seconda metà del 1500 e arrivato, verso la fine del secolo, in Cina per restarvi 30 anni con la missione di portarvi il Dio dei cristiani, ma di fatto creatore di un ponte meraviglioso di scambi culturali e umani con l’Oriente. Al punto da meritare dall’Imperatore il privilegio di essere sepolto, primo europeo, in quella terra immensa.

 

Le stazioni della sua vita eroica e straordinaria dovrebbero essere sostenute dalla presenza e dalle voci dell’attore Simone Tangolo, e dei baritoni Roberto Abbondanza e Bruno Taddia, rispettivamente il Viaggiatore, Matteo, L’uomo che guarda. Ma risultano in sé slegate, se non fosse per i rari momenti di incontro dei tre che – unica idea felice della regia – sfaccettano come un prisma la figura del complesso protagonista in azione, biografia, pensiero. Se le prime due “facce” sono sostenute dal contorno fisico degli interpreti, l’elemento del pensiero, del dubbio intellettuale, della memoria è in gran parte delegato e suggerito solo dalla potenza della musica “filosofica” di Boccadoro.

SHI foto di Alfredo Tabocchini

 

La prima di Turandot al Macerata Opera Festival è stata una divertente seduta psicanalitica, da Freud a Lacan, sulle paure di amare o di condividere l’amore, attraverso la principessa di ghiaccio. Tanto da suggerire alla regia la scritta finale sulle mura: Chi ha paura muore ogni giorno. Un orso polare finto; delle teche da esperimenti biologici sovradimensionate; dieci guardie-servi di scena in tenuta da sommossa, poi in mutande; stragi di bambini; Turandot che spara a Liù su richiesta di lei sempre vestita da aspirante sposa; uomini-topi che circondano la principessa proprio mentre Calaf sta intonando il pezzo più famoso e commovente (“il nome mio nessun saprà” “all’alba vincerò” con viscerale, non ufficialmente manifestata nostalgia di Pavarotti da parte del pubblico).

Sono queste alcune delle immagini che hanno suscitato applausi o silenzi glaciali da parte degli spettatori dello Sferisterio di Macerata durante la prima del 21 luglio (repliche il 29; 4 e 13 agosto) dell’opera di Giacomo Puccini, regia di Stefano Ricci, progetto ricci/forte. La pratica di affidare opere liriche di tradizione a registi contemporanei è diventata ormai consuetudine – più o meno responsabile. Salva la partitura musicale e il libretto (in questo caso quello di Adami e Simoni, che trovarono un finale alla partitura incompiuta), il resto è “terra di conquista”, libera interpretazione, e a volte il marchio è forte. Lo è per la regia di Stefano Ricci per la Turandot prodotta dal Macerata Opera Festival e dal Teatro Nazionale Croato di Zagabria.

 

Turandot foto di Alfredo Tabocchini

Ma appunto, esclusi da rifacimenti e rispettati la musica che è affare del direttore e dell’orchestra, e il libretto che serve ai cantanti, l’operazione registica è risultata molto coerente, sia come cifra riconoscibile e inevitabile, sia come attuazione delle premesse. Non una lettura melodrammatica, ma fiabesca (dalla favola di Gozzi); non psicologica (come ci ha abituato certa regia Novecento), ma psicanalitica. Tra le scene potenti ecco dunque: la forza del Coro che in ricci/forte ha simpatie da tragedia greca; i clowns dei ministri Ping Pong Pang che si sintonizzano, per gli anni Venti in cui fu composta l’opera, sulle contemporanee invenzioni di Mejerchol’d ; le luci finali della storia a lieto fine, che premia lo spettatore teledipendente di oggi ma vede allontanarsi i protagonisti, Turandot e Calaf, per intima ribellione alla logica della telenovela.

 

Turandot foto di Alfredo Tabocchini

 

Visti al  Macerata Opera Festival il 20 e 21 luglio 2017

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