Festival(s) — 13/08/2017 at 21:48

Terreni Creativi:”Il dubbio” resiliente dopo la “Crisi” e la forza della parola teatrale

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ALBENGA (Savona) – La dilagante crisi – economica, ma non solo – che da anni oramai, attanaglia l’intero pianeta, ci ha insegnato a pensare in termini di resilienza. Sempre più spesso, infatti, c’imbattiamo in arguti, che una volta recuperata la radice della parola in “krísis” ovvero “decisione”, ne sottolineano la derivazione dal verbo greco “krino” e cioé “separare, cernere”. Se il riferimento letterale è a quell’azione della trebbiatura che divide i cereali dalla spiga, in senso più lato l’etimo strizza l’occhio al “discernere, giudicare, valutare”. Sono i prodromi della scelta e di conseguenza dell’azione, capace d'(inter)rompere la fissità di chi si senta sotto scacco (in crisi, appunto) per irrompere in un agito fattivo, evolutivo e concreto. Tutto questo per dire che “crisi” dice anche “opportunità”, come ben sottolineato, fin dal titolo della passata edizione del Festival “Terreni Creativi” di Kronoteatro, la compagnia teatrale che oramai da otto anni, puntuale, ai primi di agosto, organizza la kermesse di spettacoli nelle serre di Albenga. E cosa c’è, dopo la scelta (in molti casi, in realtà, anche prima), se non il “dubbio” inteso come costante critica, eco di un atteggiamento mai pago di sé o chiuso nell’auto referenzialità del proprio “guscio di noce”, per dirla con Amleto? Ed ecco che “Seminare dubbi” è diventato il monito dell’edizione di quest’anno, tenutasi dal 5 al 7 agosto scorso, inverando quell’atteggiamento positivo di resilienza, che non ha mai permesso a Kronoteatro di darsi per vinto, nonostante le difficoltà – economiche, ma non solo – nel tenere in piedi una macchina organizzativa così. Perché a “Terreni Creativi” ci si viene volentieri e sempre volentieri ci si torna.

Terreni Creativi: il pubblico “quasi apericena” foto di Nicolò Puppo

Perché non è solo l’occasione per vedere del teatro, di quello di cui un pubblico di provincia difficilmente fruirebbe nelle stagioni invernali, ma soprattutto perché è una festa collettiva, a cui partecipano fino a oltre 250 spettatori per sera. Nonostante l’impervietà dei luoghi, a richiamarli certo sono le esibizioni, ma – non meno – quell’atmosfera fringe, in cui il teatro sembra riappropriarsi del suo spirito di collettività orizzontale. Negli spazi condivisi in cui l’arte ma anche la fatica della terra, e gli aromi dei suoi prodotti, si mescolano in un’esperienza unica; non solo si assiste agli spettacoli, si condividono anche emozioni, degustazioni di specialità gastronomiche (a metà serata e poi, ancora, nella chiusura ravvivata dal dj-set) e molte reazioni. Il pubblico attento e vivace, non lesina solo applausi agli artisti, che ha imparato a conoscere nel corso degli anni, ma non recede nemmeno dall’idea di abbandonare gli enormi spazi delle aziende agricole, mostrando, così, un temperamento e una libertà, a riprova di come sia consapevole e “alfabetizzato”, grazie ad un lavoro di sensibilizzazione e d’inclusione da annoverarsi fra i meriti di “Terreni Creativi”. Ancora: quest’enorme macchina organizzativa si regge, per un tempo totale di un mese intero, sulla collaborazione gratuita e liberale di quasi 40 persone  tra volontari divisi fra biglietteria, logistica, tecnici e maestranze -, chiaro segno, pure questo, del radicamento del festival nel tessuto socio culturale della comunità ingauna.

 

Lo staff di Terreni Creativi foto di Nicolò Puppo

E di teatro cosa si è visto quest’anno a “Terreni Creativi”? Ogni giornata ha riproposto uno stesso schema: entrée con uno spettacolo di teatrodanza (negli intenti, quanto meno, perché poi più spesso si è trattato di un ibrido, che alla performance fisica non ha mancato di accompagnare quella parola tanto cara ad altro genere artistico) e poi, intervallati dal momento conviviale del ricco aperitivo-quasi-cena, due spettacoli più dichiaratamente “teatrali”. Ma “cos’è, il teatro?”, verrebbe da chiedersi, assistendo alla caleidoscopica proposta di titoli in giro per lo Stivale e non sempre solo al di fuori dai circuiti più tradizionali. Certo i festival, per loro stessa natura, sono o dovrebbero essere “terreni creativi” del nuovo; incubatori dello sperimentale e, in qualche modo, torrette privilegiate, da cui pre-vedere, in lontananza, ciò che poi diverrà, forse, tendenza condivisa. Se così è, allora, cosa si evince da questo pur marginale e giovane festival, a proposito delle tendenze del teatro?
Un dato, anzitutto: la preponderanza della parola – e, in alcuni casi, la “prepotenza”; non di quelle gridate, ma bisbigliata e sussurrata, piuttosto. Blandente come una lingua sottile e sibillante.

 

Indoor foto di Nicolò Puppo

Fiumi di parole non solo negli spettacoli di apertura, uno per sera, per un pubblico di soli 80 spettatori , a cominciare da “Indoor” della Compagnia DegoMor (che addirittura ha chiuso la performance con una simulata conferenza stampa, benché poco aggiungesse alle azioni già di per per loro esplicite nel descrivere la competitività dei due personaggi sulla scena), ma anche in “Mangiare e bere, letame e morte” di Interno5/Davide Iodice, altro spettacolo di teatrodanza. Pure qui, le non sempre pulite, ma certo non per questo meno efficaci (nell’impatto emozionale, almeno) azioni di Alessandra Fabbri sono bastate (nella percezione della scrittura scenica, a quanto pare) a descrivere tutto lo struggimento e l’inarrivabilità di chi “animale da palcoscenico”, certo brama esserlo – con tutto il corpo, è, qui, il caso di dirlo, oltre che con tutta l’anima -, sebbene ancora non lo sia. Attingendo anche alla naivité di un’esperienza biografica popolata da presenze zoomorfiche e animali dal sentire quasi umano, come nell’esemplificativo aneddoto dei papagallini, racconta – dice, vomita, quasi… -, attraverso una ridondanza di sillabe, laddove il silenzio, forse, avrebbe obbligato il pubblico a un lavoro certo più impegnativo e scomodo, ma probabilmente più efficace.

Teatro delle Moire “Vous étes pleine de désespoire foto di Nicolò Puppo

Del tutto senza parole, invece – ma anche senza concedere alla platea il rituale liberatorio dell’applauso finale -, “Vous étes pleine de désespoire” di Teatro delle Moire e Alessandro Bedosti. Un ambiente asettico e immacolato quanto, nonostante tutto, può esserlo solo un obitorio, in cui la vita abbia già finito di pulsare/sporcare in maniera incontrollata e autonoma – almeno fino a quando non si decida, intenzionalmente, di macellarla -; forse la sala di mattenza di una pescheria, in cui ostendere il corpo inerme di una sirena/monstrum tanto non convenzionale, quanto può esserlo solo lo sguardo di chi si concede il tempo della lentezza, della compassione e della pietà. Perché è un po’ anche questo, il punto: accanto alla preponderanza della parola, negli spettacoli di questo festival, non meno ne riecheggia la forza, la potenza, la pre-potenza, che subdolamente s’insinua in una dialettica, che, se non vogliamo dire manipolatoria, certo ci parla della sua capacità d’interpolazione.

 

Marco Cavalcoli    To be or not to be, Roger Bernart   foto di Nicolò Puppo

Così potrà sembrare riduttivo liquidare il lavoro di Fanny & Alexander (la conferenza-spettacolo “To be or not to be, Roger Bernart” sull’eterodirezione nella comunicazione anche attraverso supporti informatici) o di Marta Cuscunà (che, proprio con questo “Sorry boys”, è stata insignita, a fine replica, domenica 6 agosto, del “Premio Donna per la Donna”, a riconoscimento del suo impegno a favore della condizione femminile, portato avanti attraverso il suo prezioso lavoro di arguto teatro di figura), incastonandoli come casi esemplificativi di questa tesi. In effetti la cifra del “rapporto di forza della parola” vuol cogliere solo uno dei tanti aspetti di questi certo più complessi e stratificati lavori. E’ quello che innesca la riflessione sul “punto di vista” e sul “diritto di replica” – e la “forza”, impari, spesso, fra chi de-tiene la parola sul palco e chi, nel buio della platea, ha solo diritto di replica “postuma”, al più. Perché è evidente che, mentre calca la scena, l’attore (e, attraverso di lui, il drammaturgo, il regista, il dramaturg o chi per loro) è il protagonista, sì, ma anche il mattatore della comunicazione. Divo in terra, per un certo lasso di tempo, l’attore “sequestra” lo spettatore – a cui non resta che il solo diritto di “suicidarsi”, per dirla alla Roger Bernart – e gli dona, unilateralmente, il suo punto di vista; il diritto di replica sarà solo a posteriori – o, nel mentre, nell’esercizio di un dissenso, che il teatro contemporaneo, però, difficilmente contempla. E forse non è un caso se Roger Bennet coinvolge il pubblico, rendendolo “sovrano” e artefice di quella eterodirezione, che mai fu più azzeccata di quanto lo sia nella tragedia dell’obbligo all’azione come quella che vede protagonista il giovane Amleto, principe danese.

Sorry boys foto di Nicolò Puppo

 

Usa parole forti, Roger Bennet, nell’apostrofare il pubblico/tiranno, nelle cui mani e nel cui giudizio intravvede quel potere che, al di qua del proscenio, ci sembra essere, invece, di chi troneggia dalle assi del palcoscenico. Perché è innegabile che il palco trasfiguri – ne dà esemplare incarnazione quell’animale quasi mitologico, mezzo vitalità incontenibile e altrettanto inesauribile terror panico e mezzo inemendabile fissità da decubito in trincea, che è il “Milite ignoto” dell’ipnotico Mario Perrotta -, anche laddove i “Lucignolo” della situazione si propongano col sembiante dimesso di Timpano/Frosini o con quello apparentemente pacioso di Leo Bassi.

Leo Bassi foto di Nicolò Puppo

 

“Mai fidarsi di uno che indossa la camicia bianca”, è il suo estremo sberleffo al giovane malcapitato, a cui ha appena irrimediabilmente sfregiato la costosa maglietta col logo di una nota marca di articoli sportivi; non diversamente da come, con sorrisetto disarmante e beffardo, gli altri due avevano intrattenuto il pubblico, sbeffeggiando, con un’arguzia tutta romanesca, i cascami della mentalità colonialista nel persistente razzismo contro i migranti di oggi. Questa, la forza di una parola prepotente e preponderante, che nasconde, fra le sottane di un’ironia a volte fin vaporosa, un’unilateralità spesso non meno intransigente di quella contro cui si fregia di ergersi a paladina. E il pubblico applaude – come nelle arene del Colosseo -, sulle ali di un transfert, che più spesso lo porta ad identificarsi col “forte”, piuttosto che col comune oggetto di ludibrio.

 

Mario Perrotta Milite Ignoto foto Nicolò Puppo

Il discorso si stempera, com’è inevitabile, nell’azione scenica che, rinunciando alla modalità da anchorman, triangola fra personaggi scritti e recitati per la scena. E’ il caso de “Il desiderio segreto dei fossili” di Maniaci/D’Amore, dove, il j’accuse alla fissità di una società incapace di evolvere oltre la pigrizia culturale del rassicurantemente asfittico status quo si accende di un intreccio ironico e surreale, ma non per questo meno poetico e tagliente. Punti di vista, scelte estetiche, certo, oltre che condizionate dal tipo di canone espressivo adottato.

Al netto di risultati artistici più o meno esaltanti, comune denominatore, comunque, restano ancora la fame e sete di parole, la necessità di un’esperienza comunitaria e condivisa – in platea come nelle lunghissime tavolate ad accogliere, indifferenziato, il vasto pubblico -, il bisogno di identificarsi con chi ancora ha la forza e il coraggio, al netto di tutto, di salire sul palco e puntare il dito dritto contro la luna: certo, nella speranza che lo stolto non si fermi a fissare il suo indice, ma anche col brivido che, in ogni caso, gli avrà saputo far alzare il naso verso il cielo, almeno.

“Dubito, cogito, ergo sum”, sentenziava Descartes nel suo “Discorso sul metodo”. Quel che intendeva dire era che solo chi si conceda il lusso della messa in discussione (dubito) può aprirsi a quel pensiero creativo (cogito), che è la radice stessa dell’essere (sum). Ed anche se, forse, quel sum qui ha solo un valore di copula e non pregnanza ontologica (di diritto quel che sottende è cogitans), certo è che senza la “provocazione” dell’incontro dialettico con l’altro (in senso personale, oltre che cosale) difficilmente si esce dal proprio orizzonte sclerotico. Poi resta da capire se e quanto – e quando – la provocazione sia l’arma più efficace. Chissà se una prossima edizione del festival saprà fornire una sua risposta.

Il festival Ortofrutticola di Albenga foto di Nicolò Puppo
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