NOTO (Siracusa) – “Aldo Morto” di Daniele Timpano è uno spettacolo interessante, complesso, anche controverso senza mai perdere mordente. Ha debuttato nel 2012, ma continua a girare nei teatri italiani e non solo per motivi pratici, ma soprattutto perché la sua complessità lo rende interessante, fecondo di riflessioni. Lo abbiamo visto a Noto nel Cortile dell’Ex Convitto Ragusa all’ interno del contesto della quinta edizione del Codex Festival. La storia che vi si propone è quella del rapimento e dell’uccisione dello statista Aldo Moro, nel 1978 ad opera delle Brigate Rosse: uno snodo tragico e cruciale per il dispiegarsi della fisionomia politica e culturale del nostro paese, una vicenda ancora oscura per molti versi e mai totalmente spiegata né dai politici né dagli storici.
Al contempo questo lavoro si presenta come una riflessione sulla possibilità stessa di raccontare una vicenda storica, e soprattutto una vicenda cosi vicina nel tempo e ancora presente e viva, non solo nei libri di storia contemporanea, ma nella carne stessa di una paese che oggi appare smarrito, narcotizzato da un più o meno becero marketing politico, incapace di fondare razionalmente le scelte politiche nella consapevolezza della sua stessa storia.
Un bel rebus: la vicenda è molto difficile (se non impossibile) da ridurre, senza semplificazioni bugiarde, a praxis teatrale ma però Timpano dimostra d’essere all’altezza e sa trovare l’unico bandolo possibile della matassa, ovvero giocare la partita della forma lasciando che l’irrisolto nodo storico-politico resti integro nella avvelenata purulenza del suo groviglio. La forma dunque è quella della narrazione/rivisitazione teatrale da parte di un immaginario figlio di Aldo Moro, che conserva la passione filiale per l’uomo, per il padre, per la sua fisionomia più privata e fragile; dall’altra non comprende cosa sia accaduto davvero e per quali motivi. Un figlio nato nel 1974 che al quel tempo aveva appena 4 anni quando sequestrarono e uccisero suo padre, il grande statista democristiano, l’uomo del dialogo coi comunisti, l’uomo il cui coraggio e la cui presenza al potere inquietavano gli apparati ideologico-militari dell’Occidente nella seconda metà del Novecento. E qui la partita si apre, si complica, diviene interessante: Timpano si getta in un vigoroso corpo a corpo teatrale con quel mondo ideologico (l’incedere dinoccolato e l’aspetto fragile, non devono ingannare) che nel suo caotico entusiasmo ha generato mostri (anche di ipocrisia), che spesso ha trovato giustificazioni inaccettabili del suo operato terroristico e troppo spesso è riuscito a non pagare fino in fondo il prezzo della sua violenza.
Una lotta per l’autenticità contro decenni di bugie, depistaggi, mezze verità: l’autenticità dell’uomo, del padre, del politico persino che ci ha lasciato la pelle e ha creduto fino in fondo e ha pagato. Niente furbizie o, almeno, niente di quelle che annullano e violentano la verità. Non è affatto una scelta facile questa di Timpano, anzi è scomoda e dolorosa, tant’è vero che in diversi segmenti l’artista non riesce a mantenere omogenea la tensione che è implicita e necessaria all’intera operazione. Qualsiasi operazione di sintesi d’altronde, spiegazione a posteriori e genericamente politica, non può che rivelarsi bugiarda e sostanzialmente tradire quella intima, fragile e forse sfuggente unità tra l’uomo e il politico che può restar viva nelle parole di un figlio. Resta la lotta allora come unica verità possibile, come senso profondo – e vivo – di questo lavoro teatrale; resta la lotta che non si esaurisce nella sua narrazione o nella sua mimesi artistica della lotta, ma vive nell’impegno costante di dare un senso ai giorni, agli eventi, alla storia, vive come valore politico, come politica tout court.
Visto a Noto il 16 settembre 2016