PRATO – Una analisi di lucida antropologia nei confronti della distopia che potrebbe essere autodistruttiva (vedi Spagna e Catalogna, o la Brexit, ), il resto di una manovra di un continente quello Europeo, che per la prima volta dopo il secondo conflitto mondiale, prova a confrontarsi con profughi provenienti da diversi Paesi non europei di fatto o di diritto e da Paesi che si affacciano sul Mediterraneo quelli che il Medio Oriente che qui da noi non riscuote nessuna fortuna – come cantava Ivano Fossati negli anni Ottanta. Una Europa che forse solo per ora (almeno) non ce la fa a riscrivere un pensiero comune di inclusione. Questa impressione arriva da un lavoro del regista di cinema e teatro Milo Rau, (cittadinanza svizzera), in EMPIRE. Ha lavorato con una squadra di quattro professionisti: attori, fuggiti e scampati letteralmente dai loro Paesi d’origine; due arabi Ramo All, Rami Khalaf( curdo) dalla Siria sotto il regime di Assad, una donna, l’unica in scena, con un cognome tedesco da ebrea di nazionalità romena ai tempi di Ceausescu , Maia Morgenstern (un nonno morto ad Auschwitz), che è stata nel ruolo di Maria nel film Gesù di Mel Gibson ( e in ruoli importanti con Theo Anghelopulos), un greco Akillas Karazissis fuggito dal regime dei colonnelli che ha lavorato in Germania ai tempi di Fassbinder .
Età diverse, provenienze geopolitiche diverse, però tutti intorno ad un tavolo di cucina, forse rurale o semplicemente bombardato, dove ancora si può mangiare qualcosa insieme condividere, bere un caffè da diverse caffettiere, raccontarsi anche con l’ausilio di fotografie magari in bianco e nero. E soprattutto auto narrarsi fra attori di professione nella vita, quella attuale adulta hic et nunc. Attori di fatto nella vita dunque e nella finzione scenica. Già, ma qual è la distanza, la differenza fra vita e recitazione?, fra ciò che siamo nelle nostre biografie e nelle nostre vite, prima dopo e durante i nostri conflitti interni-esterni?, le nostre dispute intra ed extra psichiche? Lo snodo del lavoro di Rau sta qui?, è uno spettacolo di denuncia, di televisione verità? Un po’ fiction un po’ docu-film? Sì perché il dubbio nasce immediatamente dal fatto che la scena, fissa è molto curata nei dettagli e dominata da una telecamera che riprende i tre attori-il quarto, in scambio, si pone dietro la telecamera a riprendere il quadretto che si auto dichiara in confessione simil privata. Cos’è: è solo un outing allo specchio e proiettato in alto su macroschermo in bianco e nero dove ogni auto narrazione è ripresa sui volti in amplificazione dei quattro attori. Ma qui non si tratta di un dramma novecentesco europeo, magari alla svedese alla Bergman, per dire, di un interno di famiglia: la scena si apre su un teatro di guerra, una casa distrutta, infatti, è quella che si vede in scena perché la guerra/e non uccidono solo le persone ma anche le case gli asili gli ospedali. E’ un conflitto civile quella di cui narrano i quattro testimoni, ciascuno col suo peso, la propria esperienza infantile e giovanile di fuga per disperazione. Vengono alla mente certe dichiarazioni choc di Gino Strada, che niente hanno di ideologico ma frutto di esperienza nella medicina umanitaria, così come i resoconti anche recentissimi di Medicins sans frontieres nel mar Mediterraneo.
Guerra è solo distruzione della vita e di chi vive. Bambini donne giovani vecchi. Senza distinzione. Il lavoro del regista, anche giornalista e sociologo Milo Rau, prova a ripetere un copione che è non solo televisione o news da social. Qui si documentano storie vere con strumenti teatral-televisivi che hanno del reportage ma sono molto di più di una restituzione giornalistica deontologicamente corretta del dolore, individuale, dentro un teatro di guerra. Qui si fa del meta-teatro perché i corpi le voci le narrazioni, provengono da attori professionisti che quelle esperienze le hanno vissute e le vivono attualmente nello snodarsi delle proprie esistenze. E’ quando la realtà supera la fantasia, quando l’orrore non è più edulcorato dal buonismo-magari necessario, addomesticato per famigliole del Telegiornale di prima serata o in fascia protetta.
Dentro il Festival Contemporanea a Prato, quindicesima edizione diretto da Edoardo Donatini: Vivere al tempo del crollo con un ricco programma di proposte, Empire spicca per la crudezza di suggestioni in bilico fra Storia e narrazioni individuali. Il lavoro si inserisce come ultimo della trilogia dedicata all’Europa odierna e si suddivide in cinque siparietti Theory of Ancestry Esilio Ballata dell’uomo comune Lutto Ritorno a casa. Nelle affabulazioni, quasi monologhi interiori dei quattro attori non c’è traccia di sentimentalismi. Non c’è relazione neppure con gli altri co-protagonisti in scena. E’ come se ciascuno parlasse a se stesso come intervistato da un microfono e una telecamera segreta che amplifica il proprio personale viaggio dell’anima esterno- interno a se stesso. Un prosciugamento estremo sulle emozioni questo operato dal regista Milo Rau, che sul dramma personale e collettivo di esseri esiliati e anche torturati ( giovani siriani incarcerati sotto Assad: quando sono triste non piango, vomito), non vuole far piangere lo spettatore anche in momenti in cui si rivolge indietro al cimitero, al nostos ai genitori come ai figli di cui si va alla ricerca per amore, per protezione, ma farlo riflettere. E ricorda in qualche modo neanche troppo sottile magari attraverso citazioni da tragedie greche Schindler’s List di Steven Spielberg. Rau lo fa con magistrale controllo dei mezzi tecnici ed espressivi sia sugli attori-coautori che sulla scena.
EMPIRE
Concept, testo e regia di Milo Rau
Testo e performance Ramo Ali, Akillas Karazissis, Rami Khalaf, Maia Morgenstern
drammaturgia e ricerca Stephan Blaske, Mirjam Knapp
Scenografia e costumi Anton Lukas
Video Marc Stephan
musiche Eleni Karaindrou
sound design Jens Baudisch
Produzione International Institute of Political Murder
Prima Nazionale Festival Contemporanea
Visto a Prato , Teatro Fabbricone il 23 settembre 2017