MILANO – Reduci dal successo di “SocialMente”, premio Teatrale Borsa Pancirolli 2014, che li ha consegnati all’attenzione di pubblico e critica, fino al 19 ottobre 2017 Frigoproduzioni approda con “Tropicana”, a Milano, nella stagione di Teatro i.
“Tropicana è il succo di frutta numero uno al mondo…”: inizia così, il foglio di sala dell’omonimo spettacolo, che poi spiega “È il 1947 quando Antonio Rossi, un emigrante siciliano, crea in Florida un impianto di pastorizzazione e imbottigliamento di spremuta d’arancia. Negli Anni ’60 Tropicana è la prima società a vendere le spremute della Florida oltreoceano”. Ma anche: “Tropicana è un brano del Gruppo Italiano. Dopo aver dominato le classifiche dell’estate 1983, è diventato un brano simbolo dell’estate tout-court” e, appunto “Tropicana è il secondo spettacolo della compagnia teatrale Frigoproduzioni…”.
Ed è già una dichiarazione d’intenti, questa. Quel che di fatto fa, la giovane compagnia – all’organico si aggiunge Salvatore Aronica, anch’egli formatosi alla Scuola di Quelli di Grock -, anzitutto è intercettare l’anomalia latente. Già, perché, a leggerlo davvero, il testo del tormentone estivo non ha nulla di leggero o disimpegnato; al contrario, sul ritmo del calypso canta di una catastrofe, forse nucleare, e dell’immobilismo che ne consegue, bloccando le vittime in prosaici gruppi scultorei. Incapaci di reagire o di scappare, restano come intrappolati dal terrore, marmorizzati nel jingle della sola cosa, che ancora sembra pulsare di vita: la pubblicità di una bibita, proveniente da una tv rimasta accesa.
Scompaginando l’indagine su più livelli – in perfetto accordo con la polisemia da loro stessi rilevata, quasi manifesto programmatico, nel suddetto foglio di sala -, il collettivo comodamente under 30 gioca a inscenare il teatro nel teatro. Ad un primo livello c’è la finzione, come se fossero loro i componenti del Gruppo Italiano, fra l’altro presenti in sala una sera fra il pubblico, o almeno, provano a ragionare come loro, nello scegliere le parole e il ritmo da dare alla canzone. Ma cosa offre l’occasione per soffermarsi sulla superficialità della comunicazione, sull’ascolto – troppo spesso non reale e attivo, e sulle strategie – arte o mercato? – sottese alla creazione di un prodotto culturale.
Ad un secondo, la finzione nella finzione: ipnotizzati da un faro color giallo ambra che simboleggia l’esplosione, ma che ricorda anche lo schermo di una televisione, a giudicare almeno dai loro volti attoniti, dalle espressioni inebetite e dagli sguardi vuoti e convergenti, verso un medesimo punto, mentre mani svogliate reggono bottiglie del brandizzato succo. Diventano loro stessi quei: “Noi [che] stavamo lì. […] Come dentro a un film”. Sono l’alienazione e l’omologazione dei mass media – impossibile non vederci satira, in questo -, che il trasforma in zombie dal gergo giovanilistico e dall’immaginario collettivo, al punto che perfino i loro sogni, poi dichiarati nella valenza di “canoni artistici”, si rivelano essere retaggi di film o cartoni animati. E poi c’è il salto nel teatro nel teatro: eccolo il terzo livello, a quarta parete calata, introdotta dal prevedibile sketch in cui giocano a scoprire le carte, occasione anche per sciorinarci i rispettivi crediti formativi – cosa, del resto utile, una giovane compagine in cerca di riconoscimento, ma, probabilmente, non così elegante.
E tutto questo per cosa? Per mostrare quanto sono intelligenti, arguti e lungimiranti – ironizzano -, al punto da capire che altro è un prodotto che funziona e che vende, differente è un prodotto artistico; e che solo i geni – citando Frank Zappa – riescono a centrare entrambi gli obbiettivi. Per i non geni, alla cui genia essi stessi modestamente si ascrivono – non resta che replicare il risultato azzeccato: non lo fece il Gruppo Italiano e, questo, risultò loro fatale, sottolineano. Ma fu, – continuano – , anche un successo forse così prematuro e inaspettato da travolgerli in filigrana, come accadde a loro stessi (il gruppo musicale), di cui inscenano i bisticci nelle dinamiche relazionali e di potere.
Forse è vero: c’è un tempo (ed un’età) per tutto, o forse è vero che non ci piacciono quelli che salgono sul palco per spiegarci come giri il mondo. Non ce n’è bisogno, specie quando, quel che si abbia da dire, sia il frutto di una pur ponderata riflessione, ma che nulla aggiunge ad un condiviso sentire, né da un punto di vista dei contenuti, né da quello di un’emozione, che, per scelta autoriale, qui, si preferisce non lasciar trasparire, virando invece sul canone ora realistico, ora da stand up commedy. Ed è un peccato, perché il teatro è emozione e condivisione, e scegliere di negarsi, sotto questo punto di vista, già pone sul terreno instabile di chi rinunci all’empatia. Sta di fatto, poi, che sibila sinistro chi, nel gioco straniante dell’automa inespressivo perché massificato, snoccioli sentenze, strizzando l’occhio di fronte a quei requisiti – freschezza e giovinezza, su cui sì, certo non mancano d’ironizzare, e poi su una pretesa modestia “che piace”, aggiungono – che loro stessi sembrerebbero cammellarci di avere. Peccato, perché ricordiamo coinvolgenti prove d’attrice della poliedrica Claudia Marsicano, capace di recitare, ballare, cantare e tenere la scena da vera mattatrice, nonostante la giovane età. Peccato. Perché di quella Ferrari in questo lavoro se ne avvertono solo timidi rombi – quando intona la versione jazz del motivetto, ad esempio. A teatro tutto si può dire e portare in scena, purché riesca ad abbattere il muro della drammatizzazione omfalica o dell’auto referenzialità di chi sembri salire in cattedra – e anche una storia intimamente personale, se ben scritta, può raggiungere la dimensione comunitaria che fa del teatro un cerchio magico.
Visto a Milano, Teatro i, il 13 ottobre 2017.