MILANO – Curiosando fra le molteplici stagioni teatrali milanesi – diverse per intenti, target, proposte, qualità, spazi, mezzi e teniture -, una in particolare, salta all’occhio: è la stagione “On The Road”, che Atir quest’anno ridistribuisce in quasi tutti i teatri milanesi. Come mai? Che ne è stato del Ringhiera, teatro a concessione comunale, per dieci anni abitato e fatto vivere da questa compagnia di produzione in un luogo di frontiera come la periferia sud di Milano?
Lo abbiamo chiesto a Serena Sinigallia, regista teatrale oltre che lirica, direttrice artistica di Atir, la quale, con i compagni di avventura del calibro di Mattia Fabris, Fausto Russo Alesi, Arianna Scommegna, Maria Pilar Pèrez Aspa, Chiara Stoppa e Sandra Zoccolan (solo per citarne alcuni), nel 1996, fonda l’Associazione Teatrale Indipendente per la Ricerca. Ripensando al loro impegno fin da allora, Serena Sinigaglia ci tiene a puntualizzare che <<questo è stato un investimento non soltanto di cuore, di energie (ma anche)di convinta politica culturale, che è un bisogno che noi sentiamo fin da quando ci siamo uniti venti anni fa: perché il teatro fosse non soltanto “Macbeth”, piuttosto che “Romeo e Giulietta”. Avevamo il bisogno di percepire l’utilità di quel che facciamo oggi e il Ringhiera ci offriva un’occasione perfetta, perché qui c’è necessità di teatro vissuto proprio come strumento d’integrazione, un servizio sociale a disposizione dei cittadini>>.
Merito e vocazione, questi, del resto, che lo stesso Assessore alla Cultura, Filippo Del Corno intervistato per sondare anche il pensiero dell’amministrazione comunale, non esita a riconoscerle, quando parla di <<un grande impegno e, devo dire, (…) una passione, che merita soltanto la nostra ammirazione, solidarizzando con la sua preoccupazione di cittadina nei confronti della chiusura del Ringhiera che io non posso che condividere – rivolgendosi a Serena Sinigaglia – ma dovrebbe anche pensare che la preoccupazione dell’Amministratore è anche del rispetto all’agibilità di un teatro>>.
Questa, di fatto, è l’ultima parola – o quanto meno quella, che ha dato avvio a questa curiosa stagione itinerante.
I fatti ce li facciamo raccontare dagli stessi protagonisti. <<Intorno a fine aprile siamo stati convocati ufficialmente al Comune di Milano, presso gli uffici dell’Assessorato alla Cultura, – ricorda la regista Sinigaglia – dove erano presenti Filippo Del Corno e tutto lo staff burocratico del Comune relativo al suo Assessorato, ci hanno detto: “Guardate che il teatro dovrà chiudere i battenti il 3 ottobre” ».
Perché?
<<Perché il 3 ottobre scadeva il contratto essendo, questo, un luogo pubblico, automaticamente l’Amministrazione deve riaprire il bando – e se pur minimizzando, spiega che – questa è solo una formalità. Avremmo comunque ri-concorso. (…) Se ri-partecipi al bando e ti viene riconfermato lo spazio (in effetti non tutto si può dare per scontato, ndr), ma se il bando presenta un certo tipo di condizioni e ci fosse un gruppo che volesse proporre più di quel che proponiamo noi ( tipo: non solo entro, ma propongo il doppio dell’affitto che proponiamo noi e porto una serie di migliorie a mie spese), il Comune può decidere, nonostante l’esperienza pregressa, che Atir ha consolidato. Sì il lavoro svolto fa molto, ma la gara dei bandi è una questione complicata.>>
È lucida e consapevole, Serena, animata da quella passione di politica culturale, che anche l’Assessore le ha riconosciuto: <<In teoria c’è anche qualcosa di giusto, nel senso che non è che uno ha il diritto divino per discendenza su un posto, ché poi genera quelle brutture, per cui c’è gente che oramai dà per scontato che quello è il suo spazio. Non dovrebbe essere così. Il rinnovo di un bando dovrebbe garantire la democrazia dell’uso degli spazi>>.
Del Corno ribadisce che il Ringhiera non è dell’Atir ma del Comune di Milano
<<Io sono ben felice che lui lo ribadisca, perché io lotto per questo spazio come cittadina, prima che come artista, quindi a me interessa che venga restituito alla cittadinanza come spazio culturale. Se possiamo esserci noi, bene – dice la regista – l’importante è che vada in mano a gente che lo ama e che faccia un buon lavoro, altrimenti tornano i tossici, torna la criminalità”. (l’ampio piazzale antistante al Teatro Ringhiera, dal 25 maggio 2012 è intitolato all’attore di teatro e di strada Fabio Chiesa, morto un paio d’anni prima in un tragico incidente stradale; per l’occasione, venne trasformato in una vera “piazza di fiori” di Milano, con centinaia di fiori disegnati sull’asfalto dalla popolazione della zona, a cui lo spazio è stato restituito come luogo di bellezza, legalità e incontro, ndr).
Eppure non potrà esserci subito la rimessa a bando, come spiega l’Assessore: <<Il teatro Ringhiera è in un momento abbastanza difficile per quanto riguarda la sua manutenzione. Richiede un intervento a breve, perché potrebbe determinarsi una condizione d’inagibilità Quello che abbiamo deciso è stato, alla fine della proroga della concessione all’Atir, nel momento in cui scadeva formalmente il contratto , di interrompere le attività del teatro, di non indire un nuovo bando di assegnazione ma di promuovere l’iter di lavori pubblici, che determina quegli interventi necessari per portarlo a piena agibilità. E adesso si sta procedendo col settore dei lavori pubblici a coordinare tutti i procedimenti, che sono necessari per gli interventi. Prima ancora c’è da fare il progetto>> – puntualizza – e così sorge spontanea, la domanda: a noi pubblico quando pensa possa essere verosimilmente restituito il Teatro Ringhiera?
<<Io purtroppo non mi pronuncio più su questi tempi, perché devo dire che le procedure, che sono richieste alla Pubblica Amministrazione per fare interventi di questo tipo, sono diventate così complesse e così articolate, che, ogni volta che indichiamo un tempo, abbiamo riscontrato che quel tempo non viene rispettato. Io non lo dico più perché già per L’ Orchidea e il Lirico ho dato dei tempi, che erano quelli del crono programma dei lavori, ma poi sono stati sfalsati da tutta una serie di interventi, derivanti dalla complessità del codice degli appalti. In sostanza io non sono in grado di dire quando il teatro Ringhiera diverrà nuovamente agibile. Quello sono in grado di dire è che quel teatro così non poteva più andare avanti, perché è troppo rischioso>>.
La questione tecnica è complessa. Ce la spiega più nel dettaglio Serena Senigallia
«In realtà l’assessore ai lavori pubblici Rabaiotti, in una delle riunioni degli assessorati congiunti, voluta dal Gabinetto del Sindaco, ha detto che i lavori sui vespai dei pavimenti (una camera d’aria, o comunque un vano isolante, che si realizza nelle costruzioni al fine di migliorare le condizioni dell’ambiente abitativo, ndr) – perché alla fine la problematica è quella – dell’intera palazzina comunale stanno implodendo. Sono lavori che per l’amministrazione pubblica vengono considerati abbastanza ordinari e non di pericolo importante. E sono lavori che una ditta fa relativamente velocemente». E continuando la direttrice artistica spiega: «Qui però è subentrata un’altra problematica data dal fatto che noi, che in questo spazio ci viviamo da dieci anni, abbiamo manifestato l’esigenza che questo evento per noi drammatico, si trasformasse anche in quello che abbiamo definito un up grade. Ma attenzione: qual è, lo scenario che si profila? Anche su nostra pressione, quindi dedicando molte energie a questo, la pubblica amministrazione potrebbe anche in un anno e mezzo/due – che loro ritengono un tempo veloce – a ridarci il Ringhiera e a rimetterlo a bando (sempre con l’interrogativo che poi arrivino persone più titolate di noi, anche se questa è un’eventualità, che io vedo molto remota).
Ma ciò che conta e il problema che si pone è che dopo dieci anni che stiamo qui, una volta che tu c’interrompi così l’attività, è un po’ dura pensare che noi rientriamo qui nella stessa identica condizione, in cui lo abbiamo lasciato. Perché questo è uno spazio dove il graticcio cade a pezzi, dove gli uffici che ci hanno dato sono sotto la soglia dell’igiene, dove ogni giorno abbiamo problemi di manutenzione, che oscilla continuamente dall’ordinario allo straordinario, perché lo vede chiaramente chiunque mette piede qui che qua dentro è il “Burundi”. Allora noi abbiamo cominciato a dire: “Ma scusate, visto che mettete in atto un appalto, visto che lo chiudete, per poterlo fare, visto che questo spazio ha delle potenzialità enormi, visto che in questi dieci anni è diventato un luogo riconosciuto in tutta Italia, quasi potenzialmente un modello di teatro di confine e di periferie – prosegue la regista del Ringhiera – visto che fate i lavori, allora sediamoci a un tavolo e cerchiamo di migliorarlo nell’insieme, questo spazio, e di migliorare le condizioni disagiate nelle quali per 10 anni abbiamo vissuto.>>
La risposta da parte dell’assessore Del Corno è improntata ad una realpolitik
<<Io quel che posso fare è premere perché i lavori vengano fatti col mio assessorato, quindi il prima possibile, così che voi ritorniate. E su questo vi posso garantire che io ho margine di manovra. Ma se cominciamo a parlare di cose più grandi, più ampie, il rischio è che io finisco di esercitare il mio potere. Se ne avete le forze voi (rivolgendosi all’Atir) , bene, altrimenti diventa un terno al lotto>>
<<Ci facevano l’esempio del Maciachini, dove il Buratto ha aspettato otto anni, perché la città del teatro ragazzi aprisse – ci spiega la Sinigaglia – e l’assessore ci ha detto che “Se voi avete la forza di aspettare otto anni, che detto – tra le righe – vuole dire anche convogliare capitali privati, la forza d’insistere per otto anni e se avete anche un altro teatro su cui poggiarvi meglio, altrimenti, dovete prendere quello che passa il convento”».
Risuona con parole certo diverse, ma non dissimile nei contenuti, la versione dell’Assessore, quando, riconoscendo il valore sociale di Atir ma non manca, però, di puntualizzare: «Credo che si sia una profonda aderenza fra quella, che è la missione artistica, che Atir si è data nel suo percorso, e anche la sua capacità di declinarla in forma sociale, e che le due cose non possano essere separate e distinte. Che però questa dimensione possa essere pensata solo nel gestire un teatro come il Ringhiera, ecco, io questo non lo credo. Atir dovrebbe iniziare a valutare altre ipotesi, che in città si stanno aprendo. Penso al Teatro della Quattordicesima, ad aprire un’interlocuzione con altri teatri privati, che sono gestiti da altri soggetti, per capire se non vi sia un’altra possibilità di far rivivere quell’esperienza».
Quindi per ora stop – il go, l’abbiamo visto, è ancora tutto da disegnare -, non c’è possibilità di negoziazione di fronte alla legittima preoccupazione dell’Amministrazione Pubblica: «Nel momento, in cui dovesse accadere qualche cosa, come dire… non c’è funzione sociale, che tiene». E adesso?: «Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare – sembra lampeggiare nello sguardo acutissimo di Serena – e io ho elaborato una strategia per affrontare questa situazione; del resto, spettava a me come ruolo, che poi ho condiviso con tutti i soci. Ho individuato tre strade, che andavano percorse. La prima era salvaguardare le produzioni Atir, quelle che erano previste al Ringhiera, perché noi siamo una compagnia finanziata dal Ministero e dobbiamo fare un certo numero di repliche. Se consideriamo che circa il 40/50 per cento negli anni passati le facevamo al Ringhiera e il restante 60/50 per cento le facevamo in tournée in Italia, io dovevo assolutamente garantire di coprire quel 40/50 per cento che avevo previsto a Milano. Da un parte le tutela delle produzioni, poi, la seconda azione da fare era tutelare il sociale. Su questo eravamo tutti noi soci fin dall’inizio d’accordo che non volevamo spostarci di qui per la prossima stagione, perché era troppo tardi per dire alle migliaia di utenti dei servizi che noi offriamo: “Sapete che c’è? Salta tutto perché non c’è il Ringhiera”. E su questo secondo punto – la tutela del sociale ‘Qui’ (nello spazio in cui lavora, ndr) – abbiamo anche chiesto insistentemente aiuto al Comune. Visto che ci togliete la sala, non potete togliere questo servizio ai cittadini; quindi aiutateci a individuare altri spazi, che possano ospitare i laboratori e i corsi di teatro integrato. La terza azione era salvare almeno un frammento di ospitalità della stagione teatrale che avevo costruito, perché, da quando lo dirigo, fosse per me farei solo ospitalità, costruendo percorsi di senso con alcuni artisti».
Sorride Serena, nel ribadire: «Sono riuscita in tutte e tre le imprese – e forse ancor più felice, continua – grazie al fatto che, quando ho alzato il telefono, tutta la realtà teatrale milanese con una trasversalità incredibile e dimostrata anche dalle presenze alla Notte Bianca (evento corale e di commiato alla sospensione delle attività di Atir al Ringhiera, tenutasi il 30 settembre scorso con una presenza molto numerosa di pubblico e colleghi, dove le persone potevano portarsi da casa tende da campeggio per riposare,ndr) perché c’erano tutte le figure, dai direttori artistici ai tecnici. Questa è stata la cosa più rincuorante, più bella e più forte, che ho visto accadere in questa situazione. La considero molto divertente essere on the road, come si chiama la nostra stagione del prossimo anno, e trovarci dal Teatro Manzoni fino al Piccolo Teatro di Milano. E’ una trasversalità che in qualche modo riconosce anche un merito di questa compagnia e di questo teatro e mette insieme persone che generalmente non lavorerebbero tra di loro. E questo è molto bello perché io credo tantissimo nella potenza della trasversalità, dell’incontro tra le persone”.
È affascinante stare ad ascoltare un direttore artistico, che parla della sua concezione di teatro
<<Penso che un teatro come il Ringhiera di confine, possa essere un luogo di sosta – quei luoghi che c’erano nel Medioevo, dove i cavalieri si fermavano -, davano la biada ai cavalli, mangiavano, dormivano e, riposati, arrivavano in città. Quindi come un luogo vicino alla città, ma anche sufficientemente lontano per proteggere e dare l’avvio e l’inizio di grandi imprese. In grado, quindi, in chi lo dirige, di avere le antenne accese e captare quali sono gli artisti, giovani e meno giovani -, ma degni di nota, che hanno solo bisogno di avere un posto un po’ più protetto, dove cominciare ad apprendere il mestiere. E così è stato – perché ricordo e ci tengo a ricordarlo – che qua sono venuti, per la prima volta, Carrozzeria Orfeo, Giuliana Musso, e prima si era esibita solo ad Olinda. Le Nina’s Drug Queen sono nate qui. Tindaro Granata e tanti altri artisti, che poi dopo li abbiamo visti chi al Piccolo, chi al Franco Parenti, chi all’Elfo.
Questa è la funzione di un teatro di confine come il Ringhiera, Quindi non si pone in termini competitivi con un teatro già bello formato, ma offre ancora una volta, mi piace questa parola, un servizio agli artisti e alla città, permettendogli di riposarsi, mettersi in forse e affrontare la dura vita del palcoscenico. Ma per fare questo è stato un duro lavoro. Perché si tratta di costruire la fiducia degli artisti, venire qui per gli artisti in parte è anche un sacrifico, specie i primi anni. Non è affatto detto che ti arrivi gente perché non potevo pagare un caché e dire che non ho mai avuto soldi per organizzare la stagione. Ogni progetto ospite che costruivo era magari nato anche anni prima attraverso la condivisione, di artisti che notavo, di percorsi tali per cui si costruiva una fiducia tale per cui loro potevano venire qui e fare dei percorsi».
Costante, il suo ribadire – con parole che prenderei a prestito, questa volta, dall’Assessore – la funzione di innovazione “coopetitiva” e non “competitiva” dei teatri, specie in un’area ad alto tasso di densità com’è il panorama milanese: “Capitale dello Spettacolo dal Vivo” – sempre citando Del Corno.
«Credo che il teatro abbia bisogno di grande solidarietà, non di farsi le scarpe a vicenda, perché, essendo un media e non un mass media, è sempre la Cenerentola delle arti dal vivo e dello spettacolo. Quindi noi che facciamo teatro dovremmo smetterla di spremere sempre le stesse persone o di rubarci quel pubblico di gente appassionata. Il nostro compito è quello di raggiungere insieme pubblici diversi, cioè portare nuove persone a teatro. Per fare questo bisogna differenziare le nostre azioni – spiega Serena nell’intervista esclusiva concessa a Rumor(s)cena – e se le differenzi, non ti fai più competizione, ma – anzi – c’è una più alta qualità di proposte differenziate. La competizione è con “Il trono di spade”(serie televisiva americana di successo, ndr) e noi dobbiamo competere tutti insieme contro il prodotto televisivo, come, anche,”Breaking Bad” e lo dico contro con molte virgolette, non perché io abbia qualcosa in contrario – anzi sono una fanatica delle serie -, ma perché è chiaro che il teatro fatica in una società che rifugge dalla cultura dell’incontro; e da ciò che non ti restituisce immediatamente danaro. Ecco la risposta così affettuosa, così disponibile da parte di tutti! Non c’è stata una una persona che non abbia immediatamente solidarizzato e tentato di aiutarci. Anche chi non è riuscito a farlo è stato proprio perché era tutto chiuso e non riusciva a trovare un altro spazio alternativo. Dai teatri periferici, piccoli, privati a quelli finanziati, c’è stata una grande rete di solidarietà, che fa veramente onore ai teatranti milanesi. Io credo nel teatro nazional popolare alla Gramsci. Per me bisogna raggiungere tutti. Poi è sul palco e nella politica culturale che attui, che te la giochi.»
Quindi, “Tutto è bene, ciò che finisce bene?” Per quest’anno diciamo di sì. Salvate le produzioni Atir (che circuiteranno in altri teatri) e il frammento di ospitalità, salvati anche i laboratori, che, in alcuni casi, si sono potuti mantenere addirittura nella palazzina stessa (il pericolo maggiore riguarda proprio il pavimento della sala teatrale), mentre gli uffici delle altre attività comunali quale gli uffici dell’Anagrafe, ad esempio, corrono rischi minori e sono in parte stati resi disponibili per alcuni dei laboratori di teatro sociale, in cui la compagnia possa trovare un proprio momento di raccordo e quartier generale. Ma il problema non certo è risolto: al momento non risulta ancora neppure indetto il bando per l’assegnazione dei lavori pubblici. Ci sarà molto da fare e da solidarizzare, e molto anche da cambiare in termini di sguardo.
Non a caso l’Assessore Del Corno riflette …
«Il tema, però, degli spazi è un tema, che sta iniziando a diventare urgente, nel senso che che sempre di più si debba rovesciare la concezione che a Milano è stata imperante dal Dopoguerra in poi – la grande esperienza di Strehler – e si è pensato che ogni artista dovesse avere in un certo senso la sua casa teatrale, per cui si sono costruite case teatrali attorno ad un artista o ad una pluralità di artisti. Figure di straordinaria importanza, penso a Strehler, a Franco Parenti, Elio De Capitani, Ferdinando Bruni. Ora quest’aspetto non è più sostenibile. Io credo che si debba andare verso quello che, un po’ scherzosamente, io definisco il co-working teatrale, cioè che i teatri devono essere molto più aperti ad essere gestiti in maniera molto plurale, dal punto di vista delle multi residenze, della possibilità che più artisti s’intervallino e abitino il teatro. Penso alle loro produzioni ma in maniera alternata rispetto ad altri. Le gestioni devono essere sempre più collettive, proprio per lasciare il più possibile spazi aperti ad altri fenomeni, che altrimenti non riescono a trovare una soluzione. Mi sembra un modello molto interessante e molto produttivo quello che hanno realizzato Quelli di Grock e Teatro Litta nel momento, in cui hanno dato vita a Manifatture Teatrali Milanesi, perché non solo hanno messo insieme due siti teatrali, ma, nel metterli insieme, sono riusciti ad aprirli molto ad una pluralità di soggetti, che stanno iniziando a lavorare in maniera molto più stabile in quelle case e far sì che quelle case diventino veramente edifici abitati da un principio di condivisione dello spazio. Credo sia un po’ questa, la strada».
«Non c’è per nulla polemica – con queste parole mi congeda Serena Sinigaglia – e non c’è la problematica di capire la cosa migliore per questo spazio, ma da mediare con la cosa concreta, che poi può accadere. Cioè essere sia realistici, che sognatori… È la mediazione la vera complessità di questa faccenda».