Chi fa teatro — 29/10/2017 at 13:30

Lucia Poli: Due cammei, che raccontano di due figure di donne e un’attrice di talento

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MILANO – A volte non è importante il cosa, quanto il come: in pochi casi questo è vero, quanto nella scrittura di Eric-Emmanuel Schmitt. Drammaturgo francese dalle lontane origini alsaziane, si è formato a suon di musica e di filosofia, che poi ha saputo far tracimare nella sua scrittura attenta al lato introspettivo e psicologico della complessità e fragilità dei rapporti umani. Di lui ricordiamo “Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano” – regalato al grande schermo nell’omonimo film del 2003 – o “Il Vangelo secondo Ponzio Pilato”, “La parte dell’altro” (sorta di fanta biografia di Hitler, se non fosse stato respinto all’Accademia di Belle Arti di Vienna) e “Diderot”, romanzi, in cui gioca a riscrivere la storia, immaginando cosa sarebbe potuto succedere, se non fosse stato, questo, il migliore dei mondi possibili – migliore, ricordiamolo, solo perché, in quanto reale, ha, rispetto ad ogni altra sua eventuale alternativa, in più la perfezione dell’esistenza.

 

 

Lucia Poli foto F.Niccoli

Succede così anche ne “L’intrusa”, in scena dal 27 al 29 ottobre al Teatro Gerolamo di Milano, che all’omonima pièce fa precedere “È una bella giornata di pioggia”. Sceglie così Angelo Savelli, il regista, che, nel montare insieme questi due amusement – solo all’apparenza tali –, tratteggia un disegno ben preciso: due cammei, che ci raccontano di due figure di donne – entrambe belle, altere, bisbetiche, benestanti, annoiate e realizzate -, ma ce le svela nel sottile gioco di ironia e perfidia, ostentazione e snobismo, fino a farne affiorare l’umana – troppo umana – miserevolezza.

A interpretarle, un’attrice del calibro di Lucia Poli, sorella del compianto Paolo, pleonastico ricordarlo, di cui condivide tutte le note ironiche e surreali, il falsetto, l’agilità allo scarto di registro, la mimica, prossemica e capacità d’incantare. Se nel primo quadro è la tipica ragazza di buona famiglia, perfezionista a tal punto, da rendersi intransigente verso gli altri, non meno di quanto lo sia con se stessa, ne “L’intrusa” è come se ci mostrasse l’evoluzione di questa stessa tipologia di donna, raggiunta la soglia di un viale del tramonto, che certo non ne ha stemperato il piglio. Eppure c’è leggerezza, acume ed ironia – in ambo i personaggi, così come nelle note cristalline e nella mimica sagace della Poli –, che quest’ora e mezza di monologo scivola via fresca come una bibita dissetante in un pomeriggio d’estate. E se nel primo quadro si ride, divertiti dal personaggio volutamente sopra le righe della ragazza bisbetica e insoddisfatta – felice è la scrittura che, contro ogni speranza di permeabilità, la porta ad accettare e poi forse anche ad apprezzare un uomo pur tanto lontano dai suoi inarrivabili parametri di perfezione -, nel secondo il riso si fa amaro, quando la realtà ci vien suggerita da quel sibillino: “Piangeva, Charles, e mi chiamava mamma…”, dice, alludendo all’ennesima telefonata con l’ex marito reo di averla abbandonata.

 

 

Lucia Poli L’intrusa foto Maria Grazia Lenzini

Di colpo il puzzle si compone; e, come risucchiato da un incalcolato vortice sotterraneo, trascina nella sua quadratura anche i cinguettii leggeri di “È una bella giornata di pioggia”. Quindi non più soltanto la caricatura della donna di buona famiglia di qualche decennio fa – tornano in mente certi quadretti di Franca Valeri -, ma, all’improvviso, compare, in tutta la sua portata, l’intento di denuncia – dell’ipocrisia sociale – e di imposizione – educare qualcuno a non poter essere se stesso: non è, forse, pure questa, una forma sottile di malcelata violenza (più spesso di genere)? Spiazzante, poi, “L’intrusa”, in cui un’ironia prosaica, ma che si colora fin da subito di una gassosità pleonastica e paradossale, non può non predisporre al coupe de théatre: la si tratteggia infatti fin da subito, in modo comico ma non per questo meno impietoso, quella che è una delle più subdole paure di questa nostra società ricca, e annoiata, ma tremendamente sola come l’anziana bisbetica signora: la demenza senile.

Sul palco, nel primo tempo ideale – perché fra i due atti c’è un’unica soluzione di continuità –, i mobili sono nascosti da pesanti teli scuri e gli ambienti – emozionali – vengono creati dalle luci e dai movimenti repentini, che portano la protagonista a spostarsi, all’improvviso, da una parte all’altra, come mossa dai repentini pungolo di un ennesimo capriccio: un po’ esigenza scenica, certo, però questa scelta si rivela anche degno contesto di chi senta sempre troppo al di sopra, ergo al di fuori, di un mondo, che gli resta comunque empaticamente indifferenziato, proprio come quelle sagome di mobilia. Così, nel secondo atto, il loro svelarsi, in tutta la pesantezza del salotto buono in cui troneggia una poltrona, che la dice lunga a proposito dell’autoplasticità della protagonista.

Quindi non solo un divertissement, questo “L’intrusa” – o meglio, come ogni divertissement di filosofica memoria, al tempo stesso l’occasione per distogliersi dalla serialità dell’ hinc et nunc, per riguardarlo da un’altr’angolatura: quella del cortocircuito dell’ironia, che, fatta scoppiare la miccia della risata, si trovi poi a contemplare le ceneri dello stoppino bruciato.

Visto a Milano, Teatro Gerolamo, il 27 ottobre 2017.

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