MILANO – Com’è difficile parlare di migranti; farlo senza cadere nella retorica o nel sentimentalismo. Com’è difficile raccontarne le singole vicende, senza indugiare in quella sorta di pietismo compassionevole, che facilmente fa di questi – tutti, sempre e a prescindere – delle ipostatiche trasfigurazioni. Come di fronte ai matti, di fronte ai bambini, alle donne o a qualsiasi altra categoria in cui la species sembri prevalere sull’individuum, è così facile cadere nel cliche del buon (selvaggio) o, al contrario, del mostro. Tutti, sempre e a prescindere; quasi che la vita non sia invece una complicazione di bonus/malus. Così si affrontano, i buoni e i cattivi: a suoni di slogan, in cui, a restare alla finestra, ciascuno ha le sue ragioni; perché spesso ragionano per macro categorie al di qua del solo e reale terreno di combattimento che è l’urgenza del singolo: come ciascuno di noi è, al di là della casellina in cui è collocabile per questo o per quell’aspetto, e da dove partono e s’innescano mirroring ed empatia.
L’altra questione è invece: chi scrive di migranti per chi scrive? Per loro, per farli sentire riconosciuti dal nostro sguardo – ergo legittimati, accolti e compresi – o per noi e per le nostre più o meno cattive coscienze, bramosi di un bagno catartico capace di renderci più bianchi della neve? “Purificami, oh, Signore! Sarò più bianco della neve…”, questo, l’incipit del Salmo 50, ma poi la questione è se davvero ci si possa ancora sentire puri o, almeno, purificabili, in un mondo così globalizzato. Se, da una parte, il non essere a conoscenza dei fatti diventa argomento sempre più colposo, dall’altra, la complessità delle cose lascia forse davvero l’esercizio del proprio dissenso quale strenuo strumento reale di offesa.
Più o meno questo è il senso de “La condizione umana” di Oltreunpo’ Teatro, in scena a Milano al Teatro Delfino in scena fino al 21 gennaio 2018. Per esplicita ammissione di Marco Oliva, drammaturgo, regista, oltre che perno della compagnia, il riferimento non è tanto all’omonimo romanzo di André Malreaux, quanto al surrealista pensiero di Magritte, espressamente citato, col suo celeberrimo quadro dal titolo “Ceci n’ést pas une pipe”, in uno dei quadri, di cui si compone lo spettacolo. “La condizione umana”, lo si ricorderà, è una pluralità di dipinti, in cui lo stesso Magritte gioca fra illusione ottica e realtà: fuor di metafora, fra l’inevitabilmente parzialità del proprio punto di vista e la totalità del reale, che spesso si confondono, inducendoci ad assolutizzare la nostra visuale, dando per scontata l’incontrovertibilità del nostro sguardo.
Un po’ ingenuamente giustapposte e con soluzioni tecniche tagliate in modo grossolano e spesso precipitoso, le micronarrazioni negli intenti sciorinano una pluralità di punti di vista. Di fatto arrivano come una carrellata di scenette – e il termine, qui, è voluto, stante la costante sensazione di amatorialità teatrale -, in cui la cosa che disturba è pure la sicurezza di un punto di vista, che non sa che bacchettare questi e quelli, salvo poi esprimersi, per una volta almeno non per via negationis, in quel duplice finale, che più arrogante di così non potrebbe essere. Un Gesù, che fino a quel momento ha parlato di amore, sciorinando miracoli e parabole su accettazione e condivisione, su compassione e provvidenza, e che poi, al discepolo che gli obbietta le sue riserve, non sa rispondere di meglio che: “Va’ a fondare la tua religione di bestemmiatori!”? E che pure lo schernisce, invitandolo ad emularlo a camminare sulle acque, quasi a dire: “Se sei così saccente da pensare di eguagliarmi nella teoria, mostra di saperlo fare anche nella pratica” Per non parlare della basicità della soluzione scenica, che sceglie, guarda caso, di vestire di candido bianco Gesù e Giovanni, mostrandoci invece l’altro in abiti (borghesi) scuri. (Peccato: in altri passaggi, le curate soluzioni sceniche di Francesca Biffi, la sempre minuziosa dedizione che riserva alle sue creazioni, avevano dato l’illusione di poter dare una svolta diversa a questo spettacolo dall’ossatura comunque composita). Non è un po’ troppo facile? Ma, facili – che non significa che non siano ricercate, in certe immagini, contributi video o soluzioni scene/costumi -, in fondo, sembrano un po’ tutte le trovate: le brevi sequenze narrative – sconnesse e, come si diceva, giustapposte le une alle altre, imbastite col filo sottile della questione stranieri –, i codici e linguaggi – monologo o azione scenica corale, parodia, riproduzione realistica o pindarico volo lirico, almeno negli intenti -, i clichet, che moltiplicano i bersagli polemici. Nessuno escluso, sì, ma senza mai planare nelle profondità di un mare, di cui vediamo solo la superficie cangiante.
Forse un lavoro po’ sprecato, in cui l’idealità sembra sconfinare in retorica e l’idealismo in una posizione a suo modo ideologica come solo un certo buonismo aletico riesce ad esserlo. Peccato. Forse un’occasione persa come lo sono tutte quelle, in cui si scelga di parlare di prima ancora che di parlare con, ma, soprattutto, Magritte docet, si additi la luna continuando a fissare il proprio dito.
Visto al Teatro Delfino di Milano il 19 gennaio 2018.