MILANO – Già Menzione Speciale Franco Quadri – Premio Riccione per il Teatro 2011 e Premio Enriquez 2014, questo “Viva l’Italia” di Roberto Scarpetti, regia di César Brie, porta ancora una volta in scena, dal 22 febbraio al 18 marzo 2018 al Teatro Elfo Puccini di Milano, la storia di Fausto e Iaio vittime del terrorismo come sarebbero stati dichiarati nel 2001 a ventritré anni dal loro assassinio.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, però, non si tratta di teatro politico; men che mai di un lavoro propagandistico o ideologico, ma di una narrazione profondamente empatica, piuttosto, resa emozionale anche dall’impatto di una colonna sonora, che ritorna, struggente, negli snodi topici e da quelle registrazioni originali, che riempiono, in attoniti bui, le nostre orecchie alla stessa maniera in cui i nostri occhi vengono colmati dalle immagini proiettate a ricordarci che è una storia vera. Un teatro testimoniale, perché la storia è fatta dai piccoli accadimenti di ogni giorno, e gli eroi, prima di diventare tali, sono uomini e donne, figli, madri e sorelle. Questo è il taglio narrativo scelto da Roberto Scarpetti. Classe 1970 e nato a Roma, è troppo giovane per averne una memoria “politica” propria, e troppo decontestualizzato, per potersi sentire erede diretto di quei fatti accaduti nella Milano del Casoretto, allora sede del centro sociale Leoncavallo. Eppure è esattamente questo, il punto di vista che Scarpetti fa suo, raccontando la vicenda profondamente umana di due studenti diciottenni mossi anche da una passione politica.
Di cosa si fa dunque portavoce, Scarpetti, attraverso il racconto di Fausto e Iaio? E cosa intende farci arrivare, la come sempre minuziosa ed evocativa regia di César Brie?
Cuurioso – e non può che saltar subito all’occhio – il taglio di sguincio dell’allestimento. Non una messa in scena ortogonale, ma è come se dalla platea guardassimo la vicenda da un’inclinazione minima: giusto 15 gradi in obliquo, eppure sufficienti a dire quanto è impossibile prenderla di petto, una storia così. Perché si tratta di un fatto di cronaca archiviato per mancanza di prove inconfutabili, nonostante i forti sospetti a convergere su precisi nomi e cognomi all’interno della pista neofascista di mandato romano. Ma poi in fondo non sembra neppure questo, l’intento drammaturgico: lungi dal tentare un tardivo processo politico, quel che si vuol fare, qui, è prendersi finalmente carico di questa spina ancora infilzata nella carne e, in qualche modo, pacificarsene per pacificarsi, attraverso questa, con tutti i casi d’intollerabile ingiustizia.
Così Fausto e Iaio diventano metafora di tutte le storie sbagliate delle ballate dai cantautori anni ’70, e se certo è di loro che si parla, ciò di cui si parla davvero è della profonda umanità di uomini e donne coinvolti in un meccanismo tanto più grande di loro, da esplodere in fatti sanguinosi e gravissimi come l’omicidio Moro e la strage di Bologna. Non c’è giudizio: né sugli assassini (Giorgio/Umberto Terruso ci viene descritto nella sua umanità quasi disarmante), né sui mandanti; e neppure su un sistema in fondo ancora dominato da slogan e da dinamiche antinomiche, dove non essere con significava ipso facto essere contro e in cui l’essere di nessuno era ancora essere nessuno. E nemmeno, però, c’è pietistica indulgenza per i personaggi-fantoccio: emblematica è la rappresentazione del macchiettistico capo della Polizia di Milano, ottimamente restituita da Federico Manfredi, anche Fausto. Quel che ci vien raccontato, in definitiva, è lo spaccato di umanità tanto ben tratteggiate e così intimamente autentiche da risucchiarci disarmati in quel groviglio di eventi che dall’assassinio dei due giovani sembrano più trarre origine che in esso confluire.
Le scene si succedono veloci, specie all’inizio, in una scenografia giocata in uno spazio vuoto delimitato da cortine in trasparenza, a suggerire distanze diaframmatiche e sguardi nascosti, teloni di plastica, che dicono polizia scientifica, sì, ma anche della precarietà di lavori ancora in corso. Anche le scene cronicistiche sono come sospese nella dimensione fra il limbico e il surreale, che tutti noi proviamo ogni qual volta siamo attanagliati dalla paura. Eppure in un mondo così asettico e destabilizzante si muovono figure dalla straordinaria carica umana. Fausto (Federico Manfredi) e Iaio (per omissis), nella loro freschezza dii ventenni, ma, ancor più, le figure, che ruotano attorno a loro: la madre di Iaio (Alice Redini eccellente nel destreggiarsi, con egual credibilità, in tutti i ruoli femminili), il commissario Salvo (Andrea Bettaglio dalla mimica impeccabile) dal paternalistico piglio di chi, nonostante tutto, si sente prima padre che strumento della Legge e nel cui personaggio, non di rado, il drammaturgo si ritaglia lo spazio di un coro dall’umanità concreta e dalla autoironia divertente. Sono il giornalista Mauro (un Massimiliano Donati intenso quanto basta), spesso voce narrante e ancor più di frequente coscienza pensante, e il sicario Giorgio, uno stranito Umberto Terruso, (se forse non riesce a riprodurre la ruspante romanità del suo personaggio), riesce però a restituire il paradossale candore, oltre alla pletora di ruoli minori entro cui si alternano. Mirabile in questo, la brillante versatilità di Federico Manfredi -, gli attori. E forse è proprio la loro carica umana – in filigrana quasi un appello a non scordarne la prepotente autenticità -, quel che li salva, nonostante una narrazione, che non li abbandona fino a che non ce li abbia consegnati, tutti, con occhi chiusi…
Con la consueta artigianale maestria a cui Brie ci ha abituati, la regia sovrappone simboli e suggestioni, evocazioni e inciampi al limite della commozione, pur senza evidentemente rinunciare a un solido lavoro sugli attori. Così le casse-cabine-auto-uffici-loculi con la loro poliedricità restituiscono non solo senso, ma anche divertita comicità e sottile ironia, mentre siamo trafitti da un fremito davanti la schermata di papaveri rossi, omaggio certo alla canzone “Guerra di Piero” di Fabrizio De André: fino a scolorare in un bianco e nero, tanto da non riuscire a far a tempo nel dire campo santo, che le immagini di repertorio irrompono già con tutta la loro grecità documentale.
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano, mercoledì 28 febbraio 2018.