Recensioni — 24/12/2018 at 09:41

Se “L’Abisso” è un uomo che scompare tra e onde.

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RUMOR(S)CENA – L’ABISSO – SIRACUSA La verità come ferita, dovere, ricerca, rovello: la verità è la riserva creativa principale a cui Davide Enia ha attinto per realizzare “L’Abisso”, lo spettacolo di narrazione tratto dal suo libro “Appunti per un naufragio” (edito da Sellerio), visto al Teatro Comunale di Siracusa di recente restauro. Portato in scena in collaborazione con l’Istituto del Dramma antico diretto da Antonio Calbi, prova a ripartire per trovare una propria collocazione tra i teatri italiani. La verità sui migranti, sulle migliaia di disperati che sbarcano a Lampedusa, in Sicilia, in Turchia, in Spagna, in Grecia; in Europa provenendo dal Nord Africa o dal Medio Oriente. Sulle torture, sulle violenze, sugli stupri che subiscono nel deserto o nei lager della Libia, su quel cimitero terribile e sconfinato che, da diversi anni ormai, è diventato il Mediterraneo. Quello che accade realmente nei salvataggi e sul “normale” eroismo dei soccorritori, sulle migliaia di storie terribili di cui questa vicenda, epocale e dolorosa, è intessuta.

Davide Enia foto di Futura Tittaferrante

Racconta di gesti piccoli o grandi, eroici o codardi, straordinari oppure ordinari e ciò che viene a galla è fragilissimo, soggetto a equivoci, facile da manipolare in malafede: ma è necessaria ed è la sola sostanza di cui uno spettacolo teatrale che si occupi di tali vicende può nutrirsi per avere senso. Questa esigenza di verità – ecco la qualità positiva più rilevante di questo spettacolo – diventa allora, essa stessa, struttura teatrale, trama e ordito del racconto, garanzia morale irrinunciabile della finzione scenica, perché al contrario la menzogna, la sua pornografia che ne deriva da queste vicende terribili, è sempre in agguato ed è necessario esserne consapevoli, evitarla come la peste. In agguato nella forma della retorica (anche politicamente corretta), della parola rotonda, del richiamo a una tradizione, nel dolore esibito o il gesto che copre o rende meno lacerante (e turpe) il fatto o la sua stessa memoria.

Una consapevolezza che Davide Enia lascia sempre che sia visibile , spezzando la narrazione, riempiendo di essa ogni singola parola, immagine, silenzio, trasalimento; della continua possibilità della menzogna fa sì che il ritmo del racconto scarti, che esso non ipnotizzi gli spettatori, non provi a incantarli, ma li tenga svegli a ragionare, a farsi domande, a esigere risposte. Da questo punto di vista il segmento meno convincente è forse proprio quello in cui la narrazione trasforma il dolore in cunto, o meglio del dolore che sembra essere attraversata dalla memoria del cunto tradizionale: si intuiscono facilmente l’input culturale e le motivazioni di questa scelta, ma si tratta di una curvatura di complessità formale davvero eccessiva, e comunque stridente, rispetto alla rigorosa attenzione antiretorica dell’intera operazione.

 

foto di Futura Tittaferrante

Visto al Teatro Comunale di Siracusa il 3 dicembre 2018

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