RUMOR(S)CENA – LA CLASSE – NOTO (Siracusa) – Nello spettacolo “La Classe”, testo di Vincenzo Manna e regia di Giuseppe Marini, c’è la sensazione di una occasione perduta: l’impressione di uno lavoro nato sotto buoni auspici e altrettante ottime intenzioni, con apporti di ricerca sociologica e psico-sociale ma poi venuto su senza grandi slanci e diventato complessivamente poco convincente. Sono pochi infatti gli spettacoli che puntano il loro focus sul miracolo dei rapporti educativi, sulla sua straordinaria densità umana e politica di questo tipo di relazioni: eppure si tratta di un crocevia di umanità (natura, cultura, storia, tradizioni, sentimenti, paure, entusiasmi, progetti) in cui, in ogni parte del mondo e in qualsiasi contesto culturale, è possibile capire senso e direzione della storia e quasi toccarli con mano. Qualunque insegnante (maestro, didatta, professore), che abbia minimamente chiaro il senso educativo del suo lavoro, può testimoniare questo valore: cambia l’umanità e cambiano i modi e i temi attraverso cui l’azione educativa può e deve dispiegarsi, ma resta il suo valore umano. Ed è un’azione che si dispiega intrecciando per sempre le vite di due persone, maestro e allievo, utilizzando i dati della conoscenza non come fine, ma come premessa importante e necessaria di un dialogo serrato che poi però deve riguardare l’umanità nella sua interezza, nell’integrità e nell’unicità di ogni persona.
Accade quasi all’inizio de “La classe” dove il tema è centrato, immediatamente e bene: “l’insegnante che non ispira nell’allievo il desiderio di imparare, sta martellando ferro freddo”. Bella battuta, profonda, definitiva, che racchiude un tesoro di esperienza e di senso: non si può insegnare altro che l’amore per il sapere, l’educazione non può mai essere altro che un accompagnamento a un percorso di auto-educazione e di innamoramento per il sapere.
Ed ecco la vicenda che viene rappresentata dove un giovane supplente (Andrea Paolotti), malgrado il preside (Claudio Casadio) tenti subito di distoglierlo da qualsiasi entusiasmo professionale e ideale, prova a trovare un punto di contatto, di dialogo tra il suo essere educatore e una classe di recupero di una scuola di un quartiere di periferia. Una qualsiasi scuola di una qualunque periferia europea e una classe multirazziale attraversata e devastata da incultura, grettezza, segregazione sociale, paura, violenza, degrado, incomunicabilità, incapacità dell’istituzione scolastica di rispondere con autorevolezza ed efficienza alle provocazioni dell’ambiente circostante. Il meccanismo educativo all’inizio sembra impossibile, ma poi scatta quasi per caso e positivamente quando uno degli alunni, un ragazzo di colore, chiede alla classe e al supplente di partecipare a un concorso europeo per provare a vincerlo (come accadrà) e avere così i soldi necessari per fuggire dal quel degrado: ha ancora voglia di farcela quel ragazzo, crede nel merito e non a caso è un immigrato.
Questo è l’architrave drammaturgico ed è, già in sé, concettualmente impegnativo, ma il tutto viene arricchito e complicato da molti altri motivi e, come direbbero gli antichi teorici, da peripezie che rendono lo spettacolo complesso: il tema degli immigrati che vengono allocati, rinchiusi, in un campo all’interno del quartiere già di suo problematico e vissuti come invasori e nemici dalla popolazione, la rabbiosa violenza fascistoide capace di sviluppandosi come esito di una guerra tra poveri, l’assuefazione alla violenza, la mancanza di speranza tale da spinge alla disperazione, alla paura, alla rabbia, all’incapacità di vedere il bene quando si presenta casualmente o volontariamente. Una complicazione in grado di rispondere a stimoli di tipo sociologico magari anche realistica, ma poi è incapace di scendere in profondità, di spiegare, di emozionare, di attingere alla verità dell’arte e degli uomini (la verità è infatti sempre particolare, mai generica).
Ne deriva una rappresentazione abbastanza scontata negli esiti e nelle situazioni (certo sociologicamente plausibili) e che avrebbe necessitato non solo di una drammaturgia più attenta e lineare ma anche di uno scavo maggiore dei personaggi (non tipi, ma uomini e donne) e magari di un cast di attori forse più motivati e/o più capaci di incarnare il veleno di certe situazioni, cosa che invece sostanzialmente non sembra potersi dire di nessun interprete. Tutti fanno il dovere onestamente, ma nulla di più e di veramente notevole. Interessante e importante risulta invece complessivamente l’impianto scenografico molto bello di Alessandro Chiti.
Visto a Noto, nel teatro Tina Di Lorenzo, il 15 gennaio 2019.
La classe
Di Vincenzo Manna. Regia di Giuseppe Marini con in scena Claudio Casadio (il preside), Andrea Paolotti (Il prof supplente Albert), Brenno Placido (Nicolas, il ragazzo violento), Edoardo Frullini (Vasile, l’alunno zingaro), Valentina Carli (Arianna, fidanzata e vittima di , Haroun Fall, Cecilia D’Amico (Maisa, la ragazza musulmana), Giulia Paoletti (Petra, la ragazza ebrea).
Scene di Alessandro Chiti, costumi di Laura Fantuzzo, musiche di Paolo Coletta. Light designer Javier Delle Monache.
Produzione: Accademia Perduta Romagna Teatri, Goldenart, Società per attori, in collaborazione con Tecnè, Società di riabilitazione Psicosociale, Phidia.
Crediti fotografici: Teatro “Tina Di Lorenzo” Noto.