RUMOR(S)CENA – RAGAZZI DI VITA – PASOLINI – POPOLIZIO – TRENTO – Non è compito facile dire qualcosa che non sia già stato detto su uno spettacolo fortunato come Ragazzi di vita: adattamento teatrale del romanzo di Pier Paolo Pasolini (scritto nel 1955) e messo in scena da Massimo Popolizio per il Teatro di Roma – Teatro Nazionale. Al tempo stesso, però, è un’operazione che va tentata, ricordando anche che il regista è stato allievo di Luca Ronconi, il quale con il poeta corsaro ha intrattenuto un rapporto insieme proficuo e critico, d’ammirazione e di disaccordo. Non è un’esagerazione affermare come la triangolazione Pasolini – Ronconi – Popolizio potrebbe costituire materia per tesi di laurea e studi. Di questo, ovviamente, nello spazio di una recensione si potranno solamente sintetizzare alcuni punti chiave, ma non prima di aver trattato dello spettacolo.
Procediamo con ordine. La parola romanzata di Pier Paolo Pasolini è tradotta in parola drammaturgica da Emanuele Trevi e quindi in parola agita da Massimo Popolizio, che l’ha affidata a Lino Guanciale e ad altri diciotto giovani interpreti. Gli elementi per un prodotto culturale di successo ci sono tutti: un titolo e un autore centrali nel panorama della cultura italiana; un regista affermato, con esperienze anche al cinema, in televisione e nel doppiaggio; un attore protagonista dalla presenza scenica magnetica e amato dal grande pubblico.
Entrando nel cuore di questa versione di Ragazzi di vita, è necessario ricordare come Pasolini traduca in scrittura la realtà postbellica delle borgate romane e dei ragazzi che le popolano, che fin dal suo arrivo nella Capitale visitava, frequentava e respirava. Un ambiente che, a suo modo di sentire, conserva ancora l’autenticità, anche spregiudicata e violenta, di un mondo rurale non ancora corrotto dal consumismo e dallo spirito piccolo-borghese. Seguendo l’autore, Trevi crea una drammaturgia fondata sul parlato romanesco, una lingua viva nel lessico e nella sonorità, ma al contempo inventata e artificiale perché filtrata dallo scrittore stesso. Popolizio (già accostatosi a Pasolini con la lettura di Una vita violenta per la trasmissione “Ad alta voce” di Rai Radio 3), riproduce sulla scena le vicende al margine e al limite del personaggio pasoliniano Riccetto e degli altri adolescenti di borgata, trasportando in uno spaccato della periferia romana anni ’50, intrisa di povertà assoluta ed espedienti per tirare a campare, ma anche di spensieratezza e divertimento. Quello che si crea è un racconto picaresco – dai risvolti ora comici, ora tragici, ora grotteschi – che procede per quadri tenuti assieme dal narratore (un intenso Lino Guanciale); costui è uno “straniero”, una figura ambigua che osserva e descrive con partecipazione le varie scene nel febbrile tentativo di ricostruire pezzi di storie.
La regia di Popolizio è valida per il funzionale allestimento scenico (una piattaforma in legno che diventa barcarola, trampolino per i tuffi, cabina di una spiaggia), ma soprattutto per la competenza con la quale forma e dirige gli attori. I giovani interpreti convincenti e preparati, sanno rendere con efficacia e passione la vitalità irrefrenabile della gioventù disperata e violenta ritratta da Pasolini. Una coralità in infaticabile movimento, di ragazzi ora seminudi, ora vestiti per entrare nella moltitudine dei personaggi. Da notare, inoltre, come Popolizio riprenda dal Maestro il trucco, diluito con saggezza, del racconto in terza persona: non solo il narratore, ma anche i personaggi accompagnano l’azione scenica con la sua descrizione o narrazione.
Se sul piano spettacolare il lavoro è decisamente d’impatto, il limite maggiore può essere riscontrato in un certo sacrificio della poetica pasoliniana, cadendo forse in un calligrafismo indolore (leggere a proposito l’acuta recensione di Michele Ortore su www.klpteatro.it).
Lo spettacolo è godibile, divertente, popolare, forse fin troppo; il retrogusto amaro dell’originale non sempre passa. Ma è un difetto “tradire” un “poeta” come Pasolini? Occorre a questo punto recuperare la triangolazione citata all’inizio. Ronconi aveva con Pasolini un rapporto ambivalente: ne stimava il talento, la passione civile, il riferimento alla quotidianità, lo considerava formativo per i giovani attori (mise in scena Pilade e due volte Calderón con interpreti in formazione, a Prato come a Torino); non ne sopportava la saccenza e soprattutto la visione del sistema del teatro italiano, contro cui lo scrittore polemizzò violentemente. Popolizio viene dalla formazione culturale di Ronconi e da lui riprende un punto di vista critico, di ammirazione ma anche di distanza, sull’autore.
Questa versione scenica di Ragazzi di vita è dunque un Pasolini reinterpretato da Popolizio, un poeta corsaro ritratto dal regista. Probabilmente la figura del narratore è da leggere in tal modo, e per far risuonare uno scrittore così ambiguo e contraddittorio sono più utili amorosi tradimenti che ossequiosi omaggi.