RUMOR(S)CENA – ARCA RUSSA – Il tempo separa ciò che era da ciò che è, il passato che pensiamo di ricordare dal futuro che pensiamo di immaginare, creando nel movimento necessario e logico che lo rappresenta l’illusione di una storia, o della Storia in generale, qualcosa cioè che nello spazio di un luogo reale o sognato inizia da un punto di tempo finendo in un altro, prendendo forma e dimensione e peso, assumendo il ruolo di realtà visibile, quando prima era un corpo senza materia. Ma la Storia, ed ogni storia particolare, è la negazione del tempo in sé e dello spazio, è una verità eterna, che avviene sempre nello stesso tempo e nello stesso luogo, che tutto riassume in un buco nero inaccessibile, in una sola immagine, nella Verità. Ma cos’è la Verità se non un rapporto tra ciò che è e ciò che non è? Si forma dunque il concetto dello spazio-tempo, un rapporto originario all’origine dell’Universo. Come rappresentarlo? Forse è la Storia una rappresentazione della realtà di questo rapporto, come ricerca di identità? Ma allora come raccontare la Storia? Come farla vivere, darle gambe e voce per muoversi e parlare?
Nel film Arca Russa (2002), di Aleksandr Sokurov, veniamo trasportati in un sogno che racconta, con le possibilità infinite e surreali del cinema, l’attraversamento del limite tra il sonno e la veglia, tra le arti e le conoscenze umane, tra la politica e la filosofia, tra la rappresentazione e l’osservazione, tra il cinema e il teatro, tra il regista e l’attore, tra l’uomo e la donna, tra la vita e la morte. Qui, nel cinema, nella vita, tutto è possibile solo in una relazione tra il soggetto e l’altro diverso da sé, tutto è sospeso in un non luogo senza tempo che rappresenta ogni luogo e ogni tempo. Siamo quindi in un museo, specificamente quello dell’Ermitage di San Pietroburgo, e il regista è anche protagonista invisibile e voce narrante, che per tutto il film viene accompagnato da un uomo vestito di nero, un diplomatico francese dell’Ottocento: insieme attraversano le porte che dividono le sale, raccontano la pittura che diventa scultura, che diventa poi carne viva, e incontrano turisti, uomini potenti, donne ideali, militari, bambini, angeli, fantasmi. Il film è un unico piano sequenza, non c’è montaggio, è il cinema-teatro, che è e non è se stesso.
Il regista fa parte del film ma non si vede, è anche il protagonista, è un non-regista e un non-attore: una sfida ai limiti dell’arte, come ogni arte è una sfida a se stessa e a ciò che non è. Tutto è pensato per contraddire ogni definizione, per superare addirittura il concetto di non contraddizione tanto caro ad una ragione filosofica sterile, una cultura che è come donna cieca che mostra l’arte (come accade in una scena centrale di Arca Russa). E il museo diventa anche il Palazzo d’Inverno, residenza di zar sconfitti, ed è anche un’arca sospesa nel tempo, circondato dal mare eterno nel quale “dovremo navigare per sempre e vivere per sempre” (come recita la frase finale del film). Possiamo uscire da questo museo?
Alla fine dello spettacolo, del sogno, della vita, c’è altro? Le migliaia di comparse e di attori che Sokurov usa per il suo straordinario capolavoro, alla fine dello spettacolo dove vanno? Li vediamo uscire? La cornice di tempo che racchiude in 96 minuti tre secoli di storia russa e di rapporto di questa con l’Europa, ci impedisce di andare oltre, di conoscere il vero finale, la Verità. La cornice, che racchiude anche le opere d’arte, è la morte, senza la quale però non potremmo neanche respirare la vita (in una scena bellissima, dei visitatori-marinai annusano i quadri), e la stanza delle cornici del museo è appunto, in un’altra scena di rara bellezza, la stanza della paura e della morte. Ma è all’interno di questa arca trasfigurata che possiamo e dobbiamo (non ci è concesso di uscire) fare un viaggio dentro noi stessi, nella nostra identità profonda: le radici culturali dell’Europa e il cinismo del potere sono dei fantasmi, delle ombre, delle manifestazioni del nostro pensiero più profondo.
Un’evoluzione e un ritorno, come ogni viaggio. Il sogno iniziale passa attraverso le varie rappresentazioni e forme d’arte che utilizzano le immagini, il teatro, poi per la pittura, la scultura e quindi il cinema, rappresentato quest’ultimo nell’unione tra immagine e suono del grande ballo finale: si ritorna infine alla realtà onirica del palazzo circondato dal mare. Ci guida, Sokurov, attraverso questo viaggio dell’assurdo, senza inizio e senza fine, senza via di entrata e senza uscita, nel suo mondo di artista che cerca una poetica contraddicendo se stesso e la propria arte, accompagnato da un alter ego che è un politico, vestito di nero, un non-uomo che guarda il mondo con distacco, che non conosce il presente e ciononostante sembra muoversi a proprio agio e con aria sprezzante tra turisti ignoranti, medici che spiegano e attori che interpretano e militari che proibiscono. Si muove non amando, forse, e sicuramente sbuffando, rimpiangendo, rimproverando e comunque anch’egli cercando qualcosa o qualcuno. Sì, i militari, che affascinano il politico e regolano l’artista: la società, la ragione, la religione, che non ci vorrebbero permettere di superare certi limiti, di conoscere tutte le stanze del museo, che nascondono o proteggono qualcosa o qualcuno. Inutile ribellarsi, inutile cedere all’avidità della conoscenza infinita. Al di là e al di qua della conoscenza (di tutte le arti), vi è infatti la vitalità del rapporto con l’altro da sé, l’uomo e la donna che ballano insieme nel gran finale, che rappresentano il tutto che si muove insieme, nello stesso tempo: una manifestazione di quella verità che è e non è ovunque e per sempre.