RUMOR(S)CENA – DOWTON ABBEY – Capita talvolta, durante la visione di un film o la lettura di un racconto, che siano certi “squarci” e non la vicenda in sé a imprimersi nella mente: dettagli sparsi, isolati, “sospesi nel tempo” come piccole nature morte. Provate a chiudere gli occhi: vi trovate all’inizio del XX secolo; il portone di una signorile dimora nella campagna inglese si apre lentamente; i drappeggi ai finestroni sono sollevati appena, tutt’attorno poltrone in noce stile «Impero» dove posano alcune mantelline da sera in ormesino o seta «Blu di Prussia». Oltre i cancelli, lo scampanellio dei segugi e all’improvviso, dalle cucine, un brusio soffocato: chiacchere sulla rozzezza dei nuovi ospiti o, forse, lo sfogo di una serva che ambisce a ben altro che bruciare gli anni migliori a preparare manicaretti. Intanto, sulla via sterrata della tenuta “sbuffa” una delle prime automobili. Un mondo antico, in silenzio, langue; il nuovo, con velata smania, incede. Il successo di Downton Abbey, nota serie tv ideata da Julian Fellowes, dipanatasi tra il 2010 e il 2015, poi condensata in un lungometraggio, risiede essenzialmente in questo indistinto rimpianto del Passato: imprecisamente e soavemente inteso, senza urti o confini, mirabile non per il “quadro” ma per gli infinitesimali dettagli della “cornice”. O forse, in un certo senso, è il rimpianto del Paradiso, in una delle tante, curiose forme che oggigiorno può assumere.
Un vento inquieto sferza il 1927: il partito repubblicano “Eroi del destino”, fondato da Éamon de Valera, ottiene la maggioranza al Parlamento di Dublino ma la guerra civile e l’uccisione del patriota Michael Collins, consumatesi quattro anni prima, non verranno scordate tanto presto. Il bimotore di Lindbergh sorvola l’Atlantico. Fra Washington e New York ha luogo la prima trasmissione televisiva via cavo. Solo le famiglie Talbot e Crawley, fra le mura di Downton Abbey, non cambiano: benché non disdegnino qualche moderno balocco, mantengono vivi gesti e riti lontani. Giunta notizia che Giorgio V e consorte sono in procinto di fare una breve visita a tutti i casati rurali che, per generazioni, hanno fedelmente servito la corona, gli abitanti della dimora fremono: camere da preparare, aiuole da rifinire. “I ricevimenti non sono diversi da un cigno in mezzo ad un lago: armonia e compostezza in superficie, goffo e frenetico sbatter di pinne sott’acqua” bisbiglia saggiamente un domestico.La gioia dell’evento non basterà, però, a coprire segreti taciuti da molto, troppo tempo…
Due ore di proiezione, fra sorrisi e batticuore, che scorrono piacevoli pure per chi ignora la serie. Fellowes e il regista Michael Engler non nascondono i propri modelli: l’affetto tra Barrow (Robert James-Collier) ed Ellis (Max Brown) rimanda all’universo letterario di Evelyn Waugh; da L’orgoglio degli Amberson di Welles e Il gattopardo di Visconti vengono rispettivamente l’idea della modernità corruttrice e il valzer finale. Nessuna finezza ma grande spettacolo, comunque: le scenografie di Donal Woods, la fotografia di Ben Smithard e i costumi di Anna Robbins, veri “divi” della pellicola, infondono vita e movenze alle scene di interni familiari di George Goodwin Kilburne (1839-1924); nell’affiatata compagnia d’attori spiccano, poi, l’autoironica Maggie Smith e la fine Michelle Dockery (con tanto di caschetto liscio alla Louise Brooks) nei panni di Lady Mary.
Per un eventuale confronto segnaliamo, infine, Io e il re (1995) di Lucio Gaudino, anch’esso imperniato su una visita regale, di ben altra gravità e scopo.