RUMOR(S)CENA – BIENNALE DI VENEZIA – I programmi di Danza Musica e Teatro della Biennale di Venezia si svolgeranno quest’anno senza soluzione di continuità: dal 14 al 25 settembre il 48 esimo Festival internazionale del Teatro, quarto atto del progetto firmato da Antonio Latella, quest’anno pensato come una sorta di “collettiva” di artisti italiani, sollecitati a comporre tutte nuove opere attorno all’unico tema della censura. Dal 25 settembre al 4 ottobre il 64 esimo Festival internazionale di Musica Contemporanea diretto da Ivan Fedele ha focalizzato sul dialogo tra generazioni, grandi personalità della musica del passato recente in dialogo con autori della più stringente contemporaneità. Dal 13 al 25 ottobre il 14 esimo Festival internazionale della Danza Contemporanea diretto da Marie Chouinard, che completa il suo quadrienno di direzione perseguendo un’idea di danza inclusiva, praticata come un territorio senza limiti.
«La collaborazione virtuosa fra Teatro, Danza e Musica rappresenta l’esempio più calzante di un progetto più ampio che prevede di sviluppare il dialogo fra le arti che costituiscono l’anima della Biennale – ha spiegato Roberto Cicutto, presidente della Biennale di Venezia -, le condizioni imposte dalla pandemia hanno dato anche qualche frutto involontariamente positivo. È una buona cosa che in un periodo concentrato da fine agosto a fine novembre si svolgano la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica seguita, come in un passaggio di testimone, dai Festival di Teatro, Musica e Danza. E che ciò avvenga attraverso un legame profondo con Architettura e Arte che, se pur rinviate al 2021 e al 2022, saranno presenti nella Mostra curata dai sei direttori (Hashim Sarkis, Cecilia Alemani, Alberto Barbera, Antonio Latella, Ivan Fedele e Marie Chouinard) che al Padiglione Centrale dei Giardini racconterà i momenti chiave della storia della Biennale lunga 125 anni (1895-2020). In questo modo la Biennale si ripresenta al mondo dando un segnale importante e forte di unità e compattezza nella promozione della ricerca nel campo delle arti contemporanee.
Teatro Musica e Danza hanno mantenuto i loro programmi (salvo qualche cambiamento per Danza che contava su presenze internazionali provenienti da Paesi che non possono ancora garantire la totale mobilità) allineandosi alla conferma di date e programmi della Mostra del Cinema. Da subito è stato chiaro che non ci saremmo “accontentati” di Mostre e Festival on line, ritenendo la presenza fisica un elemento fondamentale e insostituibile della piena fruizione dell’offerta della Biennale. Una scelta dettata anche dal rispetto per il grande lavoro fatto in questi anni con dedizione e passione dai Direttori Artistici delle tre discipline che oggi presentano i loro programmi».
Biennale Teatro
Con 27 artisti, 28 titoli – tutte novità assolute – per un totale di 40 recite, Antonio Latella allestisce il suo “Padiglione Teatro Italia”che costituisce il 48. Festival Internazionale del Teatro (14 – 25 settembre). L’edizione 2020 porta il titolo di “Nascondi(no)”
«In questi tre anni – afferma Antonio Latella – ho voluto evidenziare artisti internazionali da far conoscere al pubblico italiano, e quindi anche agli artisti italiani. Cercando nella programmazione un confronto diretto, una contaminazione capace di arricchire il nostro bagaglio di ricerca. Il quarto anno diventa per me la valorizzazione del teatro italiano. Abbiamo cercato di costruire una mappatura di artisti che sono al di fuori di queste leggi e che raramente vengono programmati dai teatri istituzionali, ma che si stanno imponendo all’attenzione della critica e degli operatori; artisti che, soprattutto, stanno costruendosi un loro pubblico, fortemente trasversale e che esce dalla costrizione dell’abbonamento. Molti artisti invitati sono giovani, alcuni giovanissimi usciti dal College di Regia della Biennale (per valorizzare il percorso fatto in questi anni, che si è preso la responsabilità di provare a lanciare nuovi talenti italiani), altri più grandi ma solo per questioni anagrafiche.
Di fronte a ciò, il mio lavoro di Direttore Artistico si affida al confronto con gli artisti chiamati a costruire con me una sorta di collettiva di teatro italiano sotto questo tema: Atto quarto – NASCONDI(NO). Ovviamente tutti gli artisti ospitati porteranno in Biennale un debutto, quindi, in qualche modo, si tratta di una Biennale Teatro senza rete, perché la scelta del Direttore non è avvenuta su spettacoli già visti ma sugli incontri e sui contenuti; questo in parte mi libera dal rischio della censura, non avendo visto nessuno dei lavori che verranno ospitati in Biennale. In parte, naturalmente».
Provengono dal vivaio di Biennale College: Leonardo Lidi, Fabio Condemi, Leonardo Manzan, Giovanni Ortoleva, Martina Badiluzzi, vincitrice dell’edizione 2019/2020 di Biennale College Registi Under 30 con The Making of Anastasia, frutto di un percorso biennale che vede il tutoraggio di Antonio Latella, e Caroline Baglioni, vincitrice di Biennale College Autori Under 40 con Il lampadario, che debutta nel Festival dopo un percorso lungo l’arco di un triennio (2018/2019/2020) con il tutoraggio di due importanti autrici del panorama nazionale: Linda Dalisi e Letizia Russo. Vicini, per generazione, sono anche Pablo Solari e Alessandro Businaro. Mentre alla generazione immediatamente precedente (primi anni ’80) appartengono Daniele Bartolini, Filippo Ceredi, Liv Ferracchiati, Antonio Ianniello, Giuseppe Stellato.Fra le compagnie, nate tutte nel nuovo millennio, ci sono: AstorriTintinelli, Biancofango, Industria Indipendente, Babilonia Teatri, Nina’s Drag Queens, Teatro dei Gordi, UnterWasser.E ancora: figure consolidate nel panorama nazionale come Fabiana Iacozzilli, Giuliana Musso, Jacopo Gassmann. Infine, Mariangela Gualtieri, poetessa, attrice, autrice, cui è affidata l’inaugurazione del 48. Festival Internazionale del Teatro con uno dei suoi preziosi “riti sonori”, come sempre guidato da Cesare Ronconi, un rito pensato come inaugurale.
«A tutti gli artisti– scrive Latella – è stato proposto di lavorare sul tema della censura, cercando di uscire dall’ovvietà di questa proposta per pensarla come valore “alto” da proporre al pubblico e agli operatori, pensando che i teatranti italiani faticano a entrare in un mercato internazionale e che quindi, in qualche modo, vengono censurati o nascosti, per il solo fatto di essere teatranti italiani». Da autori come Fassbinder, D’Annunzio e Nabokov a personaggi storici come George W. Bush o il regista Elia Kazan, tantissime, diversificate e sorprendenti sono state le risposte che gli artisti hanno dato alla sollecitazione del tema.
Fra le tante declinazioni del tema,ci sono registi e compagnie che hanno trovato impulso in autori dello “scandalo”. La filosofia nel budoir del marchese de Sade per Fabio Condemi, già regista di Bestia da stile e Jakob Von Gunten, è una prosecuzione della sua indagine su testi di ‘formazione alla rovescia’ e “su autori con una propensione (o una condanna) a uscire dal mondo e a scomparire, lasciando una traccia di cui non riusciamo a liberarci”. Lolita, da Nabokov, nell’immaginario di Biancofango “è una parola sul vocabolario, una ragazzina che ciascuno di noi ha conosciuto, almeno una volta, nella vita, un mito, un modo di dire, una proibizione, un implicito non esplicabile, un fatto scabroso, un trafiletto nella cronaca nera, un peccato” e tante altre cosa ancora. In Eh!Eh!Eh! Raccapriccio, da I fiori del male di Baudelaire, AstorriTintinelli, immaginano “uno spettacolo che abbia un’aurea luciferina, ebbra… un luogo che ricordi il più possibile uno spazio sacro, in cui incombe un’atmosfera di mistero e di crepuscolo dove due creature si confrontano, tra raccapriccio e orrore, sulla caducità della vita”. La città morta, considerato il tentativo fallito di Gabriele D’Annunzio di riscrivere la tragedia greca, è messo in scena ora da Leonardo Lidi con “un pensiero sulla censura che il D’Annunzio teatrale ha ricevuto e continua a ricevere, censura che – data l’imprendibilità scenica del testo – sembra quasi suggerito dal poeta stesso”.
I rifiuti la città e la morte di Fassbinder, il più clamoroso caso di censura nella Germania degli anni ‘70, scritto nel 1975 e messo in scena sui palcoscenici tedeschi solo 34 anni dopo, è per il regista Giovanni Ortoleva “la storia di una moderna Passione di Cristo… Un testo allo stesso tempo blasfemo e religioso, che mette sulla croce una figura che nel racconto biblico avremmo trovato ai piedi di Cristo”.
In altri casi gli artisti, invitati a confrontarsi con il tema della censura, sono stati sollecitati da personaggi storici o tematiche politiche, sociali, psicologiche che consentono loro di mettere sotto la lente d’ingrandimento la realtà.
George II, scritto da Stefano Fortin e diretto da Alessandro Businaro, affronta la storia e il mondo del Presidente americano visto come “un principe shakespeariano” per interrogarsi sulla “post verità come la nuova frontiera della censura, la sua implacabile e sfuggente tecnica di controllo”. Elia Kazan. Confessione americana, liberamente ispirato alla vita controversa del regista, per il drammaturgo Matteo Luoni e il regista Pablo Solari è “una storia che parla di quel compromesso che una volta nella vita tutti siamo costretti ad affrontare: quella scelta per cui non c’è salvezza. Come fai, perdi. Senza amici e senza armi, Elia si dovrà trovare da solo con la sua vocazione per poter capire veramente chi è, o chi è diventato.” Una cosa enorme di Fabiana Iacozzilli indaga sui processi di “auto inganno censorio” che riguardano il genere femminile su un tema cruciale come la maternità: “Nel costruirlo – dichiara la regista – mi sto nutrendo di Sheila Heti, di Orna Donath e degli incontri con fatti e storie di altre persone, persone che ho cercato ma che, il più delle volte, hanno cercato me”. Dentro(una storia vera, se volete) di Giuliana Musso è un lavoro sull’occultamento della violenza, una storia vera di abuso sui minori: “Un’esperienza difficile da ascoltare.
Una madre che scopre la peggiore delle verità. Una figlia che odia la madre. Un padre innocente fino a prova contraria. E una platea di terapeuti, consulenti, educatori, medici, assistenti sociali, avvocati che non vogliono sapere la verità”. The right way, una performance di Daniele Bartolini con la sua compagnia DopoLavoro Teatrale, si focalizza sui contro-effetti del politically correct. “Dopo sette anni di permanenza in Canada – racconta l’autore – tutto questo ha coinvolto anche me, mi trovo perfettamente integrato, adesso anche io mi confronto tutti i giorni con un pensiero che mi suggerisce cosa sia giusto fare e cosa sia lecito pensare, una voce che posso scegliere di ascoltare o meno ma che comunque parla ed esprime dei giudizi. Con Eve #2 Filippo Ceredi dà una risposta artistica alla violenza comunicativa dilagante nei media e nei discorsi politici: “un percorso per rimettere in relazione i frammenti della contemporaneità con la dimensione personale del pubblico e con la possibilità di dare adito a un processo vitale di memoria collettiva”. Automated Teller Machine di Giuseppe Stellato si concentra sul rapporto uomo-macchina, dove la macchina questa volta è un bancomat: “una macchina ad alto potenziale simbolico, che ci costringe a interrogarci sul potere di un elemento tanto concreto quanto astratto, spesso alla base di molte delle controversie della nostra società: il denaro”. La performance Nanaminagura, ideata da Antonio Ianniello, ha per oggetto il mondo delle competizioni dell’air guitar, in cui i vincitori sono maestri nel suonare una chitarra elettrica immaginaria, come la Nanami Nagura del titolo.
Altri titoli del Festival fanno riferimento a un veto, un’interdizione, un impedimento evidenziato nel titolo. Natura morta di Babilonia Teatri mette al centro della scena un gruppo di bambini: “Vorremmo ragionare sul tema della censura – dichiarano – con chi ha uno sguardo ancora completamente libero, uno sguardo che non deve anteporre la ragione di stato, né i costumi, né la pubblica morale al suo pensiero. Con chi ancora non si muove negli interstizi tra libertà individuale e norme sociali”.
Non dire/Non fare/Non baciare sono tre storie raccontate dagli allievi registi, attori e drammaturghi dell’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” sotto la guida di Francesco Manetti, che assume su di sé il ruolo del censore. “Tre storie, tre esempi, tre simboli di come, ancora, l’espressione di certi pensieri (non dire), la libertà di alcune scelte (non fare), il rapporto con il corpo, soprattutto se femminile (non baciare), siano limitati, subdolamente controllati, indirizzati in ambiti rassicuranti e uniformati”. Untolddel collettivo UnterWasser esplora i meccanismi di difesa, gli schermi che gli individui erigono per preservarsi dalla distruzione, dalla disgregazione del proprio ego e dall’incontro con i propri mostri, creati e alimentati da paura e dolore. Bye Bye di Alessio Maria Romano immagina un gruppo di utenti che “muovono e danzano il corpo in un sistema ciclico di azioni, un carillon ossessivo di azioni fisiche in cui l’opzione undoprevista da tutti i Pc, svolge il compito preciso e sottile di tornare indietro, cancellare, eliminare tracce, dettagli per poi, forse, recuperarli. Che cosa rimane dopo il lavoro di undo? Che cosa causa l’azione di undo e com’è interpretato ciò che lascia? Chi decide di usarlo e quando?”.
In alcuni casi il tema censura viene visualizzato in un luogo, un paesaggio, uno spazio fisico: come Pandora del Teatro dei Gordi diretti da Riccardo Pippa, che delimita in un bagno – di una fabbrica, di una stazione della metropolitana, di un aeroporto, di un club, di una stazione di servizio – “uno spazio amorale, di sospensione, anche di grossa violenza e nudità, un luogo comune dell’interiorità dove ampliare lo spettro dell’azione quotidiana oltre i limiti e le censure”; o come Klub Taiga di Industria Indipendente, dove il Klub è un luogo destinato alle controculture e la taiga evoca “l’immagine dell’intoccato, dell’inospitale, dell’indesiderato, come luogo antitetico al sogno tropicale immaginato e fantasticato”; o anche come Glory Wall di Rocco Placidi con la regia di Leonardo Manzan, che analizza tutto quello che c’è dietro a un muro, chiedendosi se “si può provare la vera natura dello spazio dietro al muro, o se si può provare la vera natura di ciò che accade dietro alla quarta parete, se è ancora possibile godere a teatro. La libertà è un muro. E al di là c’è il principio di piacere”.
Apparentemente distanti dall’idea di censura, autori come Anton Cechov, Thomas Mann, Tomasi di Lampedusa e il poco frequentato, per l’Italia, Arne Lygre, sono stati il punto di partenza per alcuni dei registi invitati.
La tragedia è finita, Platonov è una riscrittura diLiv Ferracchiati, che col personaggio cechoviano torna a un amore giovanile di cui ad attrarlo era “l’apparente mancanza di autocensura, nei pensieri, negli impulsi”; Ultima Latet prende le mosse dal luogo di cura della Montagna incantata di Mann in cui l’autore e regista Franco Visioli vede “anche un luogo sconosciuto e per questo temuto, un luogo dove la censura viene esercitata al contrario. Chi è censurato qui è il sano… Il malato diventa protagonista proprio in virtù della malattia che si porta addosso che lo spinge all’introspezione, a domandarsi quale sia il limite percorribile per affrontare, quando dovuto, il momento finale”; ne Le Gattoparde (L’ultima festa prima della fine del mondo) le Nina’s Drag Queens prendono ispirazione dal libro di Tomasi di Lampedusa per rileggere l’immutabilità del potere, che trasportano dall’Italia dell’800 al Paese del boom economico degli anni ’60; Niente di me,di uno dei massimi autori scandinavi, Arne Lygre, messo in scena da Jacopo Gassmann, rappresenta forse l’estremo tentativo della letteratura teatrale di andare oltre i confini del non-detto all’interno di un rapporto di coppia; ma non censurare le verità nascoste dell’amore è davvero un atto di libertà?
Come ogni anno, le masterclass di Biennale College sono parte integrante del festival, pensate in funzione del tema comune affrontato. Una mastercalss sarò dedicata alla direzione artistica con Umberto Angelini e una sulla critica teatrale con Claudia Cannella. Avrà esito pubblico la terza masterclass tenuta dal regista, coreografo e pedagogo Alessio Maria Romano, Leone d’argento di questa edizione del festival.
«I Leoni del Teatro quest’anno vogliono premiare – spiega Antonio Latella – artisti che danno e fanno tantissimo per il teatro ma che spesso restano in seconda linea, anche per responsabilità del regista, troppo spesso accentratore, che dimentica quanto il risultato finale sia spesso legato ai collaboratori che sceglie». Il premio alla carriera viene attribuito a Franco Visioli, sound designer al fianco di Thierry Salmon, Peter Stein, Massimo Castri, Antonio Latella, autore di drammaturgie sonore che diventano parte essenziale di uno spettacolo sempre più polifonico, dove ogni elemento concorre ugualmente alla sua definizione. Il Leone d’argento è stato assegnato ad Alessio Maria Romano, regista e coreografo che ha lavorato ai movimenti scenici di spettacoli di Luca Ronconi, Carmelo Rifici, Valter Malosti, Sonia Bergamasco, fra gli altri, oltre a impegnarsi nella pedagogia del movimento per la formazione degli attori.
La Biennale di Venezia
Le muse inquiete
La Biennale di fronte alla storia
realizzata dall’Archivio Storico della Biennale – ASAC
curata per la prima volta da tutti i direttori dei sei settori artistici
(Arte, Architettura, Cinema, Danza, Musica, Teatro)
con la collaborazione di Istituto Luce-Cinecittà e Rai Teche
e di altri archivi nazionali e internazionali
Padiglione Centrale, Giardini della Biennale
dal 29 agosto all’8 dicembre 2020
Venezia, 15 luglio 2020 – La Biennale di Venezia, nella ricorrenza dei 125 anni dalla sua fondazione, presenta la mostra Le muse inquiete. La Biennale di fronte alla storia, che si terrà al Padiglione Centrale dei Giardini della Biennaledasabato 29 agosto fino amartedì 8 dicembre 2020,realizzata dall’Archivio storico della Biennale – ASAC.
La mostra è curata per la prima volta da tutti i direttori dei sei settori artistici che hanno lavorato insieme per ripercorrere, attraverso le fonti uniche dell’Archivio della Biennale e di altri archivi nazionali e internazionali, quei momenti in cui La Biennale e la storia del Novecento si sono intrecciate a Venezia.
Cecilia Alemani (Arte), Alberto Barbera (Cinema), Marie Chouinard (Danza), Ivan Fedele (Musica), Antonio Latella (Teatro), Hashim Sarkis (Architettura) hanno attinto non solo ai materiali dell’Archivio storico della Biennale e dell’Istituto Luce-Cinecittà e Rai Teche, ma anche ai documenti degli archivi della Galleria Nazionale Arte Moderna di Roma, Tate Modern London, Peggy Guggenheim Collection, Fondazione Ugo e Olga Levi, Archivio Ugo Mulas, Aamod-Fondazione archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Archivio Cameraphoto Arte Venezia, Fondazione Modena Arti Visive, IVESER Istituto Veneziano per la Storia della Resistenza e della società contemporanea, Centro Sperimentale di Cinematografia Roma.
Il Presidente della Biennale Roberto Cicutto, nel presentare la mostra ha espresso la sua gratitudine per “la generosa adesione che i direttori, lo staff dell’Archivio storico e lo staff della Biennale tutta hanno dato alla costruzione – in parallelo con gli impegni relativi alle Mostre e ai Festival – di un progetto che rafforza ancor più La Biennale come laboratorio permanente di ricerca delle arti contemporanee, motore indispensabile di indagine sul presente e sul futuro e strumento strategico di sviluppo anche economico per la società contemporanea.”
I direttori hanno selezionato per questa mostra testimonianze, filmati rari e opere e costruito percorsi di ricerca che si soffermano su quei momenti in cui il passato dell’Istituzione veneziana si è intersecato agli eventi della storia globale, manifestando e generando fratture istituzionali, crisi politiche ed etiche, ma anche nuovi idiomi creativi.
La mostra si articola nelle sale del Padiglione Centrale in un itinerario che attraversa le sei discipline: dagli Anni del Fascismo (1928-1945) alla guerra fredda e ai nuovi ordini mondiali (1948-1964), dal ’68 alle biennali di Carlo Ripa di Meana (1974-78), dal Postmoderno alla prima Biennale di Architettura fino agli anni ’90 e l’inizio della globalizzazione.
In un periodo di instabilità globale che solo negli ultimi mesi ha visto alternarsi catastrofi ecologiche, nuove pandemie e rivoluzioni sociali, La Biennale di Venezia si distingue così non solo come luogo di produzione e riflessione delle tendenze più innovative delle principali discipline artistiche contemporanee, ma conferma anche il suo ruolo di testimone privilegiato di molteplici cambiamenti, drammi e crisi sociali susseguitisi dalla fine dell’Ottocento a oggi, registrando come un sismografo i sussulti della storia. Il progetto di allestimento della mostra e la grafica del manifesto sono a cura di Formafantasma.
Il catalogo della mostra è edito dalla Biennale di Venezia.
Vendita dei biglietti di mostra esclusivamente on line
Orario estivo 11-19
Ingressi ogni 30 minuti (con capienza massima di 200 persone per fascia oraria)
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Drammaturgie: atto terzo, Biennale di Venezia 2019 , 47 esima edizione del Festival internazionale di Teatro diretta da Antonio Latella
Antonio Latella nel presentare il terzo e penultimo atto “Drammaturgie” della Biennale Teatro di Venezia 2019 scriveva: «.. Dramma dal greco drao significa io agisco, ed è interessante che il dramma agisca o abbia bisogno che noi agiamo, che in qualche modo mettiamo in movimento l’azione e di conseguenza scegliamo o siamo scelti. Il dramma agisce nell’intimo di ogni spettatore e allo stesso tempo noi agiamo su di lui, ogni sera, nonostante all’apparenza esso resti uguale; in realtà l’azione che riguarda il dramma è differente proprio perché modificata dagli spettatori, che sono naturalmente diversi, individui con storie private uniche e inimitabili. Ogni sera, a teatro, si manifestano quei trenta secondi, a volte un minuto, durante i quali individui diversi si mettono in comunicazione tra loro e cominciano a respirare insieme, un momento di comunione prima che, dal buio della sala, si apra il sipario mettendoci di fronte a un nuovo agire, a un nuovo dramma».
La scelta di titolare al plurale drammaturgie spiegava Latella è «perché crediamo che nel ventunesimo secolo sono tante e differenti le drammaturgie per la scena». Si apre una riflessione che porta al discorso di come spesso lo spettacolo dal vivo riveli delle carenze sul piano drammaturgico: «I commenti più spiazzanti, anche da parte degli addetti ai lavori, si sono rivolti al fatto che spesso gli spettacoli non avessero una storia, come se non ci fosse mai accorti che importanti autori del Novecento avessero già da tempo creato nuove drammaturgie; scritture che prevedevano la destrutturazione di un testo dall’andamento narrativo lineare, o autori che si sono spinti persone a distruggere ciò che tradizionalmente chiamiamo personaggio, allontanandosi dalla psicologia e facendo di esso una sorta di manifesto letterario, prosa che diviene letteratura».
E a farlo per la prima volta, Latella cita Beckett e il suo Atto senza parola, a suo avviso il drammaturgo che è riuscito a scrivere un testo teatrale senza bisogno di ricorrere alle parole. Da qui in poi la drammaturgia/e (il direttore della Biennale sceglie il plurale per definire quante possano essere le soluzioni) si presterà ad essere trasformata di scelte artistiche e tecniche in mutevoli e differenti modi di intendere una creazione per la scena. Lo spettacolo prende forma sul palcoscenico dove l’idea prende forma da un lavoro di scrittura di scena; in altri casi il testo è stato destrutturato e assume forme insolite avvalendosi di linguaggi sperimentali a cui il teatro sempre più ha creduto. Il valore della drammaturgia per Latella è innegabile: «la drammaturgia esalta il lavoro dei registi, degli attori e anche dei direttori artistici. A oggi, affiancarsi a un drammaturgo e tracciare insieme a lui è un percorso drammaturgico è fondamentale per la crescita di tutti e creare un’autentica connessione con il pubblico».
Non è un caso che Antonio Latella abbia scelto per l’edizione dell’anno scorso di valorizzare la drammaturgia del teatro per ragazzi «nata per creare un nuovo pubblico, crescerlo e proteggerlo dall’ovvietà, proponendo grande teatro non rivolto soltanto a un pubblico giovane o molto giovane». Un genere di teatro a cui Latella ha dato molto risalto con l’assegnazione del Leone d’argento a Jetse Batelan, giovane regista olandese e direttore artistico del Theater Artemis, con la motivazione: «Il teatro per ragazzi, che spesso viene a torto considerato di serie B o comunque di una categoria inferiore rispetto a quello “ufficiale”, torna a rivestire l’importanza che merita e che ha avuto in passato, come peraltro insegna la storia della Biennale Teatro». Anche nella sua presentazione dell’edizione 2019 ribadiva la sua volontà a riguardo: «…Citando per ultima, ma forse prima per importanza, la drammaturgia destinata al teatro-ragazzi, nata per creare un nuovo pubblico, crescerlo e proteggerlo dall’ovvietà, proponendo grande teatro non rivolto soltanto ad un pubblico giovane o molto giovane».
E così è stato. Di Jetse Batelan si sono visti due spettacoli molto differenti tra di loro : “The Story of the Story” (La storia della storia) che nasce dall’intento di esplorare il racconto, sviscerarne le sue caratteristiche, di come sia indispensabile mantenerlo in vita. Raccontare per comunicare questo è il senso in cui opera il regista per assolvere il mandato di un teatro capace di arrivare senza filtri allo spettatore che nel suo caso è un bambino. L’intento è quello di dare massima libertà a chi guarda e avere con lui una relazione diretta senza mediazioni intellettuali. Un regista che si avvale di collaboratori di scena a stretto contatto per far si che si venga a creare uno spettacolo di forte impatto da lui definito come “un’immagine autonoma”. Nella presentazione dei suoi due lavori visti alla Biennale Teatro 2019 scrive sul catalogo che «“The story of the story” è la sintesi di tutto quello che ho fatto finora. Non posso pensare più in grande di così. Il mio obiettivo è creare sempre qualcosa che non sia mai stato fatto prima. Posso essere molto rigido al riguardo. Ma per questa performance (in cui appaiono gigantografie del presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump, il calciatore Ronaldo e della cantautrice statunitense Beyoncé, ndr) su larga scala mi sono divertito a citare lavori precedenti. Per una volta tutto era permesso. Si doveva fare. Come esseri umani sembriamo avere un irresistibile bisogno di essere rilevanti e significativi. Ci piace essere importanti. Vogliamo far parte della storia. Mentre in passato la ricercavamo nelle religioni e nei grandi ideali, adesso si nota come le persone, per pura povertà, abbiano iniziato a drammatizzare le loro vite. Sui social media condividiamo la nostra “storia”. Urrà, la nostra vita ha di nuovo un significato ! Ma che dire di questa paura del “nulla”? The Story of the Story parla di questa paura. Il nulla è così negativo? Non c’è rimasto ancora “più che abbastanza”?». I social sono diventati il contenitore dove ognuno riversa tutta la sua vita privata in cui ogni gesto, azione anche la più intima viene amplificata ed esaltata in modo eccessivo. L’esaltazione di sé fino alla ricerca di una legittimazione che richiede sempre l’approvazione degli altri.
Il regista Batelan crea la sua “storia” partendo dall’arrivo in scena di esseri primordiali curiosi di conoscere un mondo a loro estraneo per impossessarsi di tutti gli oggetti che trovano utilizzandoli in modo estemporaneo e improprio senza le finalità per cui sono stati costruiti, le cui azioni non sembrano avere un nesso logico se non affastellarsi in sovrapposizioni continue. Questa è la strada seguita dal regista per farci conoscere l’evoluzione dell’uomo? Le gigantografie di Donald Trump, Ronaldo, Beyoncé che appaiono sulla scena a figurare un’improbabile famiglia ci riportano al nostro presente storico. Una voce fuori campo funge da narratore per spiegare a tutti la Storia e come si è originata. La discussione post spettacolo tra critici e operatori ha evidenziato le molte perplessità riscontrate nella visione. Per chi è abituato ad assistere a spettacoli per bambini in cui una drammaturgia-storia (se pur visionaria ed astratta) è identificabile ai più, il lavoro di Batelan non ha convinto del tutto.
Di tutt’altro spessore è War: le azioni di guerra raccontate da tre soldati al fronte che da militari capaci di affrontare situazioni belliche con coraggio come dovrebbero dimostrare si rivelano, al contrario uomini impauriti e terrorizzati con l’intento di fuggire. Un rovesciamento di ruoli dove gli spettatori -bambini assumono le veci degli adulti e gestiscono con l’emissione si suoni finalizzati a creare i rumori della battaglia, facendo spaventare gli adulti. Ogni azione “bellica” è numerata fino a perdere sempre più la sua reale caratteristica e il gioco diventa sempre più un pretesto per dire che fare la guerra non significa solo usare delle armi e l’intento pedagogico rivolto ai bambini è lampante. Lo sport, ad esempio, ha questa caratteristica se agito con aggressività. Un teatro che sa raccontare se stesso ma è anche foriero di senso e di magistrali intuizioni e sapientemente supportato da una recitazione superba anche nell’espressività fisica dei tre protagonisti. La scena diventa un contenitore di oggetti in un apparente disordine che parla a sua volta e racconta storie del passato, memori di ricordi che testimoniano la loro vita precedente. Vivace, eclettico e dinamico il divertimento è assicurato ma il tutto è attraversato da un velo di malinconica nostalgia.
Visti al Teatro Goldoni di Venezia Biennale Teatro 2019