RUMOR(S)CENA – RECENSIONE CINEMATOGRAFICA – Spiazzante questo Imprevisti digitali, uscito in sala con ‘Officine UBU’ poco prima dell’ultimo decreto ministeriale (24-10-‘20): lo includiamo – prede magari di un’incauta, passeggera “euforia” – fra gli esiti più corposi di inizio autunno. Vincitrice dell’Orso d’Argento al 70º Festival di Berlino, sotto lo sbarazzino titolo italiano la pellicola nasconde il più coerente “Effacer l’historique” ossia “cancellare la cronologia”: l’espressione indica, ovviamente, la rimozione (dal terminale o dal dispositivo portatile) delle tracce della nostra navigazione in Rete; eppure Benoît Delépine e Gustave Kervern – anche autori del copione, qui alla prova più matura dietro la cinepresa dopo Mammuth (2010) – potrebbero alludere a qualcosa di più grave, complesso e remoto nel tempo.
Pare, infatti, sussurrare il duo d’Oltralpe: «E se il genere umano potesse davvero fare un passo indietro, cancellando di colpo una lunga, compromettente parte della sua cronologia?». Terrorizza l’idea di far cadere con un solo gesto gli ultimi tre secoli, le relative conquiste, il modello di vita che ne seguì? Il fuorilegge Jena compiva un’azione simile in Escape from L.A. di John Carpenter ma la cornice visionaria della storia, ancorché distopica, in fondo rassicurava. Ora, però, la fantasia “di ieri” è verità pubblica. Ora è politica. E il sogno di dare una “pennellata di bianchetto” almeno sopra tre degli effetti della Terza Rivoluzione Industriale (dalla metà del XX sec.), i meno regolamentabili quando non nefandi, si accarezza oggigiorno con tremante, ritrovato piacere. Azzerare tutto, quindi, non per nuocere ma per “ritornare”: ritornare a vedere il mondo con veri occhi, a toccarlo con vere mani e, proprio mediante il tatto, “sentirlo” nell’accezione più profonda di questo verbo. I tre effetti rievocati sono, come immaginabile, la rivoluzione informatica e i suoi più rilevanti “sottoinsiemi”: l’economia digitale e il monitoraggio di dati e contenuti personali; temi fra l’altro che animarono già la terza parte di un agile studio di Piero Baroni, intitolato La guerra psicologica (Ciarrapico, ’86). Torniamo, però, al film.
Chi ama il cinema, guardando Imprevisti digitali, pensa subito a Dodes’ka-den (’70) di Kurosawa. D’accordo, i prefabbricati a schiera, simili a tanti mattoncini ‘Lego’ dai colori pastello, nei distretti dell’Hauts-de-France hanno preso il posto dei tuguri del capolavoro nipponico, ciò nonostante il futuro appare bigio come cinquant’anni fa. Il pubblico segue da vicino tre solitudini: Marie (Blanche Gardin) rinuncia di rado a un sorso di whisky, ha le mani bucate, si districa tra lavori assurdi e, fatto prevedibile, perde la custodia del figlio quindicenne, senza che questi, beninteso, versi una lacrima dato che il babbo lo copre generosamente di completini da 700 euro e inguardabili scarpe sportive con luci fosforescenti e stringhe placcate oro; Bertrand (Denis Podalydès), vedovo da pochi anni con figlia a carico, gestisce malamente un colorificio, sogna di aprire presto un ‘chiosco-furgone’ e, intanto, la calda voce di Miranda, telefonista erotica di Port Louis, lo “consola” pomeriggio dopo pomeriggio; Christine (Corinne Masiero, già fra le interpreti de Le invisibili di Louis-Julien Petit), perso stupidamente il posto di custode presso una centrale nucleare, non esclude una “nuova avventura” come tassista autonoma sebbene, in tempi di ‘Uber’ e ‘Bla Bla Car’, la richiesta cali.
Cosa lega i personaggi? Guai seri, ciascuno ruotante attorno al proprio tablet: un giovanotto (Vincent Lacoste) ricatta Marie con foto piccanti; Bertrand deve rimuovere da Internet un video che immortala la figlia picchiata, con tanto di coretto incitante, da una compagna di classe; Christine vuole vedere in faccia chi ostracizza la sua nuova attività, disabilitando dal relativo sito web le recensioni dei clienti. Aiutato da una spia informatica – che modestamente, e non a caso, risponde al nome di “Dio” (Bouli Lanners) – ad accedere ai ‘Centri Elaborazione Dati’ di tre diverse città (in Canada, nel Regno Unito e nella menzionata Repubblica Mauriziana), riuscirà il nostro “trino” Davide a farla in barba all’invulnerabile Golia “a fibre ottiche”?
Immoto e chiuso come una boccia per pesci rossi, viziato da qualche forzatura (dov’è la polizia postale in tutta questa bolgia?) e trovata pecoreccia, costantemente bagnato da una luce granulosa e “sintetica” (la fotografia è di Hugues Poulain) che rende gli spazi esterni non meno soffocanti di quelli interni, Imprevisti digitali conferma la duttilità della cinematografia francese dell’ultimo quinquennio nonché la sua unicità a saper dibattere di mutamenti comportamentali, incubi domestici, regressive fantasie e crisi ideologiche del nostro presente senza rifugiarsi in luoghi comuni o minare la validità estetica del prodotto (si vedano La loi du marché, Jalouse, Nos batailles, Celle que vous croyez, Gloria mundi). Il film non mancherà certo di far discutere e anche irritare per come si “compiace” di deludere ogni tentativo di “imprigionarlo” in un genere: farsa? satira politica? dramma di condanna? Nel secondo tempo si sorride di più (impagabile l’episodio in cui Bertrand scopre la vera identità di Miranda) ma è il caso tipico di ghigno imbarazzato, preferibile spesso al pianto o alla constatazione del vero, sotto la guaina dell’eccesso.
Una piccola nota a margine: pugni chiusi e smorfie birichine, Delépine e Kervern appartengono, insieme ai colleghi Robert Guédiguian e Stéphane Brizé, pur con le differenze d’età che li separano l’un l’altro, a quella che può considerarsi l’ultima cultura “d’opposizione” attualmente praticabile in Europa. Animale assai strano, “erede” del disincanto della scuola filosofica degli anni ’50 e ’60 – la quale investì dapprima il socialismo di finalità quasi messianiche (“Socialisme ou Barbarie”), per poi teorizzare che il mondo, di fatto intrasformabile, va “sopportato” – tale cultura, servendosi tra molti linguaggi pure di quello filmico, critica l’odierna società dalle radici, basandosi su argomenti dal carattere sempre più marcatamente (e curiosamente) spirituale e “metafisico”, anziché economico o storiografico. Semplificando con una battuta, nel terzo millennio Peppone non ha bisogno della notte, lontano da occhi indiscreti, per dialogare col parroco; lo fa di giorno e con inquieta ammirazione riscopre, intanto, le “profezie” di Bernanos, Marcel ed Ellul sulla disumanizzazione che porta un uso incauto della Tecnologia; vissuta, cioè, non come uno strumento bensì un surrogato delle antiche divinità dal cui crepuscolo, come ogni parodia “nera”, esso trae forza. Scrive Nicolas Bonnal: “per ogni sviluppo tecnico, l’uomo necessita di una consolazione ‘magica’. Riscoprirà in lui un’oscura ‘estraneità’ nel momento in cui pretenderà da sé stesso un raziocinio estremo, d’obbligo per sopravvivere in epoche macchinali” (Avatar Éd., 2017).
Gesti e atteggiamenti propri dell’adorazione religiosa rimangono, dunque, visibili in un mondo virtualmente uniformato e la pellicola di Delépine e Kervern narra per immagini esattamente questo: l’artista dell’ASMR (sorta di bisbiglio che rilassa e, in alcuni casi, conduce all’orgasmo) prende così il posto della Grande Madre con la differenza che gli adepti, come Bertrand, si “spremono” fino all’impotenza anziché evirarsi; i nuovi sancta sanctorum (“qōdesh haqǒdāshīm”, in ebraico) sono, invece, i nominati “Centri Elaborazione Dati” (data centers, in inglese) i quali rispondono a ogni quesito ma in una lingua che ancora pochi sanno padroneggiare… mentre Dio (che non è morto ad Auschwitz, come scrisse Rubenstein, ma solo “fuggito in esilio”), mascherato da spia informatica, si rifugia dentro la gondola di una pala eolica! Egli, sì, apre a chiunque bussi alla Sua porta, aiuta sempre la pecora quando è giudice il lupo tuttavia continua, enigmaticamente, a non interferire con i disegni dell’Avversario; nel caso in esame (per Sua stessa ammissione) a levarsi contro gli abissi delle cosiddette “Reti Oscure” (darknet): ineffabili, subdole, impastate di una materia che oltrepassa plasma o vetronite, dalle quali forse neppure Lui ci può salvare. Non nel corpo, almeno. Per fortuna, in Francia, e non solo, la “Festa dei Folli” si può ancora celebrare: indossare una maschera, ad esempio; far le boccacce a un drone, contro la sua cibernetica “iettatura” oppure segare in due, fra gioiosi schiamazzi, il monitor di un pc aziendale… Ai piani alti qualcuno si sfregherà le mani, ma tant’è.
Per un approfondimento, consigliamo la visione di Caduta libera (Nosedive), un episodio dalla terza stagione della serie tv “Black Mirror”, nonché la lettura, essenziale ancora dopo anni, de Il tattile e il digitale ne Lo scambio simbolico e la morte di Jean Baudrillard (Feltrinelli, cap. II).