RUMOR(S)CENA – CINEMA – ALAIN DELON – Lo scorso 8 novembre Alain Delon ha compiuto 85 anni. Il mondo dei registi italiani (e non solo) pullula tutt’ora di vanesi imbecilli, persuasi che il carismatico protagonista di successi quali Il clan dei siciliani di Verneuil o Scorpio di Winner, non fosse più di un “fustaccio”, un attore legnoso, valorizzato esclusivamente da Visconti (Rocco e i suoi fratelli) e Zurlini (La prima notte di quiete), condannato ad indossare, di parte in parte, pur con i debiti affinamenti, la stessa, riconoscibile maschera di “emissario di morte”, dal portamento aristocratico e piacente di un piacere perverso. Solo quest’ultima affermazione è fondata: diverse pellicole, dalla fine del decennio Settanta in poi, salvo felici eccezioni (Notre histoire di Blier), lo provano. Ci auguriamo che le sei opere selezionate incoraggino i lettori, specie i giovanissimi, a riscoprire un Delon “nascosto nell’ombra”, “bravo” (sovente autoironico) prima che “bello”, soprattutto non intimorito dal percorre nuove strade espressive o imbarcarsi in rischiose avventure filmiche peraltro, col senno di poi, vincenti nonché precorritrici di gusti e tendenze oggi popolari. A nome della redazione di “Rumor(S)cena”, non resta che esclamare: «Auguri cari, Dandy dagli Occhi di Ghiaccio».
FRANK COSTELLO, FACCIA D’ANGELO (Le samouraï; 1967) di Jean-Pierre Melville. Jeff Costello (‘Frank’ è un’invenzione del doppiaggio nostrano) è un sicario che ben conosce il mestiere. Gli imprevisti, tuttavia, sono sempre da tener in conto: qualcuno ha assistito alla sua ultima esecuzione. Vittima: il direttore di una bisca notturna. Convocato al distretto, il nostro viene torchiato dal commissario (François Périer). Aiutato, però, dall’amante, Jeff si procura un alibi di ferro, costringendo i testimoni a rivedere la loro deposizione. Intanto, il mandante del delitto, persa la fiducia nel sicario, vuole sbarazzarsene. Da cacciatore Jeff diviene, così, preda e di nessuno ormai potrà fidarsi… Soggetto scarno, fotografia dalle tinte smorte, ai limiti del bianco e nero, tempi oltremodo dilatati e irreali silenzi, il celebre nero di Melville cesella e offre a Delon il ruolo che ognuno di noi associa subito all’interprete: taciturno, gelido e inarrestabile come un automa ma che, sulla falsariga degli eroi western, non spara mai per primo… Visivamente e narrativamente assai imitato, Le samouraï trova in Ghost Dog di Jim Jarmusch e Vengeance del cinese Johnnie To le sue più curiose riletture.
L’EVASO (La veuve Couderc; 1971) di Pierre Granier-Deferre. Liberamente ispirato al romanzo omonimo (Adelphi, ‘93) di Georges Simenon, il film vede un miserabile appena fuggito di prigione (assassinò due politici) nascondersi, sotto falso nome, in una fattoria dell’Alta Francia dove verrà assunto come operaio. Mme Couderc (Simone Signoret) è la proprietaria e, per rimaner tale, lotta con unghie e denti contro i venali suoceri. Fra le due solitudini – il reietto braccato dai gendarmi e la fattoressa non più giovane, scippata d’ogni gioia e certezza – sboccia la passione, presto oggetto di timori e dicerie dei paesani (siamo negli anni ’30 ma delazioni e segreti orrori che, sotto il mandato di Pétain, domineranno la provincia transalpina si possono scorgere sotto la superficie). L’uomo sedurrà anche Félicie (Ottavia Piccolo), giovanissima cugina di Mme Couderc, e il già precario equilibrio della situazione crollerà definitivamente… L’incontro fra Granier-Deferre e le pagine di Simenon generò alcuni dei film più riusciti del cineasta parigino: Le chat, con Jean Gabin, e Le train con Trintignant e una radiosa Romy Schneider. Il copione di Pascal Jardin tradisce, come accennato, il testo d’origine, annacquandone brutalità e carnale concretezza ma l’esito è ugualmente intenso. Da segnalare la fotografia di Walter Wottitz (L’armée des ombres).
MONSIEUR KLEIN (Id.; 1976) di Joseph Losey. Nella Parigi occupata dai nazisti, un mercante d’arte fa affari d’oro con chi è costretto a vendere i preziosi di famiglia finché, di colpo, viene scambiato per un altro, preciso a lui, dal suo stesso nome ma… israelita. Klein, così si chiama il mercante, si troverà al centro in una vicenda dai tratti nebulosi, sempre più labili, sciogliendo l’enigma solo nel tragicomico epilogo. Il collegamento, seppur vago, con L’uomo del banco dei pegni di Lumet viene spontaneo. Per gli ammiratori di Delon (qui alla miglior prova d’attore in assoluto) il tema del Doppio richiamerà, invece, un precedente del divo francese ossia il personaggio incarnato in William Wilson, segmento centrale di Histoires extraordinaires (1968), ispirato a tre novelle di Edgar Allan Poe: cadetto militare, scialacquatore e donnaiolo, Wilson veniva, appunto, perseguitato da un sosia fin da bambino. Losey riprende il paradosso identitario “alla Poe”, arricchendolo di suggestioni mutuate da Dostoevskij e Kafka. Scenografie del grande Alexandre Trauner (Il porto delle nebbie) e fotografia di Gerry Fisher (Cerimonia segreta).
22a VITTIMA… NESSUN TESTIMONE (Parole de flic; 1985) di José Pinheiro. Frustrato dall’inefficienza della polizia, che non è riuscita a dare un volto all’assassino della moglie, l’ispettore Daniel Pratt lascia Lione, ritirandosi in un piccolo villaggio sul tratto di costa congolese che dà sull’Atlantico. Dieci anni dopo viene barbaramente uccisa anche sua figlia: ciò riporterà Pratt al distretto lionese. Da principio, il nostro verrà coadiuvato nell’indagine da Stéphane Reiner (Jacques Perrin), agente degli affari interni nonché amico di gioventù, e dall’ispettrice Sabine Clément (Fiona Gélin) per poi procedere fuori dalle vie ufficiali, forte dei buoni contatti mantenuti con i mariuoli locali. Proprio grazie a questi Pratt scoprirà che la figlia è solo l’ultima vittima caduta (fatalmente, nel suo caso) per mano di una milizia privata nota come “Colère de Dieu”, composta da semplici cittadini e membri fuori controllo del reparto mobile, alleati nel punire di persona la criminalità lionese. Ma chi capeggia la milizia? A metà degli anni ‘80, Alain Delon si dedicò sempre più al cinema d’azione. Per la pellicola in esame – cruenta, spesso ricorrente a iperboli da fumetto, che Pinheiro e lo stesso Delon scrissero partendo da un’idea del giallista Philippe Setbon, di cui rimase ben poco – il divo, anche produttore, eseguì personalmente ogni acrobazia e pirotecnico inseguimento, rinnovando, per il giovane pubblico, la sua maschera di “vendicatore solitario”. Il regista tornerà a lavorare con Delon tre anni dopo in Ne réveillez pas un flic qui dort ma soprattutto nel 2001 con il fortunato Fabio Montale, sceneggiato RAI tratto dalla trilogia marsigliese di Jean-Claude Izzo (E/O ed., 2011). Curiosità: in una particina figura Vincent Lindon, in seguito attore prediletto di Stéphane Brizé. Immagini e ambientazioni sono opera dei “fidi” Jean-Jacques Tarbès (Due contro la città) e Théo Meurisse (Le cercle rouge).
LE PASSAGE (Id.; 1986) di René Manzor. Esordio dell’allora ventiseienne René Lalanne, in arte ‘Manzor’: fra i maggiori incassi dell’anno (2,5 milioni di spettatori) del cinema francese; in Italia passò pressoché inosservato. Jean Diaz, stimato disegnatore di cartoni animati, muore in un incidente d’auto, mentre il figliolino David (Alain Lalanne, figlio del regista), anch’esso a bordo, cade in coma. La Nera Mietitrice, in saio ed ossa, è responsabile dell’accaduto. Non perché fosse scoccata l’ora di entrambi, bensì per vanaglorioso capriccio. Ridestando Diaz all’obitorio, l’Oscura Entità gli strapperà un accordo: realizzare per Lei, e per Lei solamente, il più bel film d’animazione mai concepito, in cambio della guarigione di David. Diaz non ha scelta. Trent’anni dopo Il settimo sigillo, ha inizio l’ennesima “partita a scacchi” di un piccolo uomo contro la Morte. L’esito, stavolta, potrebbe essere diverso… Le passage è un’opera figlia del suo tempo. Invecchiata sotto molti aspetti (la Nera Mietitrice che sorveglia il mondo da una parete cosparsa di monitors, come uno studio di regia televisivo, fa un po’ sorridere), dal sapore “di plastica”, essa porta i segni dell’inesperienza giovanile di Manzor: narrazione incerta, evitabili incongruenze… eppure proprio in virtù della sua ingenuità fiabesca la storia cattura ancora oggi e la descrizione dei rapporti tra padre e figlio giunge toccante e pulita. Il vinile della partitura di Jean-Félix e Francis Lalanne andò a ruba (la canzone On se retrouvera fu e rimane un grande successo in patria). Manzor, fra i pochi autori francesi del periodo che esplorasse il genere fantastico, si ritagliò negli anni uno spazio letterario (Dans les brumes du mal) e filmico (sette pellicole, diverse regie per il piccolo schermo come la serie Le avventure del giovane Indiana Jones, di cui diresse due episodi) di tutto rispetto. Alain Delon credette moltissimo al progetto e, pur con qualche eccesso teatrale, riuscì a donare al suo Diaz fragilità, esitazioni, tenerezza e scatti di umana verità. Le ingegnose invenzioni scenografiche portano la firma di Manu de Chauvigny, poi collaboratore di Jacques Rivette (Storia di Marie e Julien) e Philippe Garrel (Un été brûlant).
COREOGRAFIA DI UN DELITTO (Dancing Machine; 1990) di Gilles Béhat. Alan Wolf fu un astro della danza, un Nurejev d’Oltralpe. Ma un incidente in moto – da cui uscì gravemente ferito e la sua fidanzata, uccisa – pose fine ai giorni di gloria. Da allora usa un bastone per camminare, ha fondato una scuola e forma giovani talenti speranzosi di calcare, un giorno, le scene. Le ballerine pendono dalle labbra di Wolf, a dispetto dell’indole rigida quando non sadica. Tre di esse muoiono in circostanze misteriose. Il commissario Eparvier (Claude Brasseur), persuaso che il maestro abbia spinto l’agonismo degli allievi troppo lontano, fino al delitto, avvia un’inchiesta. Nel frattempo la stessa ex moglie di Wolf viene trovata assassinata. Il coreografo è, dunque, solo un cinico macchinatore, indurito dai ricordi, oppure è davvero l’omicida che Eparvier sta cercando?
Scritto da Didier Decoin insieme al romanziere Loup Durand e allo stesso Alain Delon, benché non brilli per originalità (il debito con Murderock di Lucio Fulci, presentato tre anni prima al Festival di Avoriaz, risulta evidentissimo), Dancing machine resta una godibile miscela di polar, dramma psicologico e riflessione sul volto nero, mortifero del Ballo; inteso come emanazione del moderno sistema tecnico-industriale, alienante e selvaggio, e non più come un’arte “che libera”. I numeri musicali di Marc Cerrone sono digressioni commerciali per attirare il pubblico di Flashdance e Staying alive ma il torvo, sfuggente coreografo che scruta gli apprendisti come il lupo (non a caso si chiama ‘Wolf’) scruta la sua vittima, attesta pienamente la maturità recitativa di Delon. La fotografia di José Luis Alcaine (La pelle che abito) e le scenografie di Jean-Yves Rabier (Midnight in Paris) si rivelano, anche in questo caso, determinanti. Infine, di Gilles Béhat, classe ‘49, regista interessante e ancora poco studiato, noto in Italia per Il commissario Cordier, segnaliamo pure Urgence (1985) e il recente Diamant 13 (2009), con Gérard Depardieu e la nostra Asia Argento.