RUMOR(S)CENA – TEATRO DI RIFREDI – FIRENZE – “Una delle ultime sere di Carnovale” è una commedia di Carlo Goldoni andata in scena la prima volta il 16 febbraio del 1762 al Teatro San Luca di Venezia, dove ottenne un successo tale, che il drammaturgo annotò nei suoi Mémoires le reazioni del pubblico «… tutta la platea risuonava di applausi, in mezzo ai quali si sentiva distintamente gridare: Buon viaggio! Felice ritorno! Non mancate! Confesso che ne fui commosso fino al punto di piangere».
Fu l’ultima commedia scritta da Goldoni prima di partire per Parigi dove era stato invitato dalla Comédie Italienne. Giovanni Ortolani in “Tutte le opere di Carlo Goldoni, Mondadori Editore 1955” la definisce «Commedia della malinconia delle cose che finiscono». Cosa può centrare Goldoni e il suo congedo con la scena teatrale veneziana e lo scrivere di uno spettacolo teatrale visto ad ottobre del 2020 al Teatro di Rifredi di Firenze? Una semplice associazione di idee? Platone sosteneva che le idee si associano per somiglianza o per contrasto, mentre Aristotele nel suo trattato sulla memoria e la riminiscenza parla anche di contiguità. Forse per quel senso di malinconia che viene descritto dallo storico del teatro nel descrivere la commedia di Goldoni: la stessa sensazione percepita la sera in cui abbiamo assistito – in forma di lettura scenica – dell’opera drammaturgica: “L’ira di Narciso di Sergio Blanco”, scelto per inaugurare la “Bizzarra stagione numero 35” del Teatro di Rifredi.
Tanto bizzarra che è durata il tempo di pochi giorni con sole tre repliche di “Tebas Land” di Sergio Blanco, per poi dover interrompere la programmazione su disposizione del Dcpm che imponeva la chiusura di tutti i teatri, cinema e sale da concerto. Qui non era il drammaturgo a decidere di partire ma lo stesso teatro che doveva allontanarsi forzatamente dal suo pubblico e viceversa.
Quella sera l’entusiasmo percepito al termine dello spettacolo, gli applausi e la gioia percepita di un pubblico, felice di essere tornato a teatro, stava a dimostrare come possa esistere un senso di appartenenza in cui una comunità si sente integrato. Il merito è del Teatro di Rifredi, catalizzatore per eccellenza di energie e passioni. Grazie all’incessante lavoro di accoglienza e fidelizzazione creato dalla direzione artistica di Giancarlo Mordini e di Angelo Savelli , insieme ad un gruppo di collaboratori molto affiatati; propensi a far sentire sempre gli spettatori come fossero a casa loro. Emerge ancora quella malinconia nel ripensare a “una delle ultime sere” teatrali del 2020, mentre ora sale la polemica da quando è uscita la notizia che il Festival di Sanremo si farà con il pubblico in sala. Intervistato dal Corriere della Sera, Amadeus risponde alle domande di Renato Franco, tra cui quella che chiede: “Perché dovrebbe aprire l’Ariston mentre gli altri teatri devono restare chiusi?”
La risposta di Amadeus non lascia dubbi in merito: «.. da parte mia c’è grande sostegno a tutto il mondo dello spettacolo dove c’è gente disoccupata che non lavora da quasi un anno. Penso che con le dovute accortezze, i distanziamenti e i numeri ridotti, teatri e cinema dovrebbero riaprire. Nel caso di Sanremo però parliamo di uno studio televisivo, come succede per tanti altri programmi». La soluzione per Amadeus è quelle di «figure contrattualizzate che sono parte integrante dello spettacolo nel rispetto del Dpcm. Con le giuste distanze possiamo arrivare a 380 persone in platea». L’ira degli artisti però non si è fatta attendere, uno di questi è Gabriele Lavia che nell’intervista rilasciata a Katia Ippaso per il Messaggero non usa giri di parole: «Ci vogliono morti. Il teatro non è mai piaciuto al potere. Da fastidio. Ho saputo che il Festival di Sanremo si farà con il pubblico in sala mentre i teatri sono chiusi da mesi. Ha fatto bene Moni Ovadia a dire che un Paese che favorisce le kermesse mediatiche, è un Paese miserabile. Io dico di più: è una gigantesca volgarità (…). I teatri sono i luoghi più sicuri in cui stare. Ci sono cerimoniali precisi che garantiscono una distanza di sicurezza. Le sembra che questa distanza sia assicurata nei supermercati?».
Dall’ira di chi si vede costretto a non poter esercitare il proprio lavoro a “L’ira di Narciso”, uno dei testi più scabrosi e originali del drammaturgo uruguaiano, in cui si racconta di un suo viaggio a Lubiana per tenere delle conferenze sul mito di Narciso. Sergio Blanco è definito a ragione come un originale e innovativo drammaturgo acclamato sulla scena internazionale. Il Teatro di Rifredi è stato il primo in Italia a tradurre, pubblicare e rappresentare l’autore nell’ambito di un lavoro di ricerca sulla drammaturgia contemporanea, lavoro che, insieme alla traduzione e la messa in scena dei testi del francese Rémi De Vos e del catalano Josep Maria Miró, ha fatto vincere il Premio Ubu Speciale della Giuria 2019.
Il regista Angelo Savelli oltre ad aver tradotto il testo ha curato anche la messa in scena con una regia essenziale e sintetica quanto efficace, optando per una lettura drammatizzata affidata a Carmine Maringola (è anche scenografo degli spettacoli di Emma Dante). «Ci siete mancati tantissimo, farò di tutto per essere il suo personaggio»: sono le prime parole significative pronunciate dall’attore rivolte al pubblico, distanziato da tabelloni collocati sulle poltroncine rosse con la scritta “Qui ci sono io” colorate e fantasiose immagini di animali: zebre, leoni, cinghiali ed elefanti, cani e gatti, a cui sono stati fatti indossare abiti da donna e da uomo. Un vero e proprio progetto artistico, la cui creatività riesce a contrastare quel senso di impotenza, causata dall’impedimento di svolgere la normale attività artistica. Il Teatro di Rifredi non si è fatto prendere dallo sconforto e ha scelto di proseguire con l’ideazione di un’originale progetto “Neo Skēnḕ – Manifesti d’artista al Teatro di Rifredi”, ideato da Niccolò Mannini della Galleria d’arte La Fonderia e dal curatore Simone Teschioni Gallo. Una mostra che ha riutilizzato in forma artistica originale le locandine degli spettacoli già stampate ma che la chiusura obbligata del teatro non avrebbe permesso l’affissione. Consegnate nelle mani di cinque artisti sono state trasformate in opere d’arte.
Skēnḕ, in greco, è il palcoscenico, lo spazio in cui viene messo in scena lo spettacolo, e il titolo richiama proprio quel luogo, a cui si desidera dare una seconda vita, creando un ponte tra l’arte visiva pittorica e l’arte della recitazione. Una “seconda vita” o forse anche di più si palesa nella scrittura drammaturgica di Sergio Blanco basata sul metodo dell’autofinzione «neologismo creato da Serge Doubrovsky nel 1977, termine composto dal prefisso auto (io sé) e dal sostantivo finzione (falsità, menzogna, invenzione); si riferisce a un genere letterario che si caratterizza tra elementi autobiografici ed elementi finzionali – si legge nel testo di Blanco “Autofinzione. L’ingegneria dell’Io. (Cue Press editore). Nella pagina Definizione: incrocio di storie e patto di menzogna” “L’ira di Narciso” contiene tutti gli elementi che confondono, mescolano, disorientano, convincono e subito dopo smentiscono la percezione di quello che viene raccontato, impedendo di fatto di separare quanto ci sia di reale da elementi di finzione che si insinuano, contaminando tutta la storia narrata.
Un abile gioco di specchi che riflettono e allo stesso tempo distorcono le immagini evocate dalla trama che racconta di una partecipazione del personaggio/autore. Lo scambio continuo tra il ruolo scritto nella drammaturgia ed elementi autobiografici dell’autore è un flusso incessante da cui è impossibile sottrarsi. Emerge nell’interpretazione di Carmine Maringola a cui va riconosciuto il merito di aver accettato un ruolo impegnativo richiesto dal testo di Blanco, ancor più nella versione proposta al leggio. Deve calarsi nella parte dell’autore/personaggio che racconta di una conferenza sul mito di Narciso che si era svolta a Lubiana, dove la narrazione si intreccia e si confonde a ritmo continuo nel mescolare realtà, finzione, mito e autobiografia senza soluzione di continuità.
Il disorientamento avanza con continui cambi di ritmo e l’interpretazione di Carmine Maringola si fa sempre più coinvolgente. Corpo fisico e mentale al servizio della parola annunciata, esclamata, narrata e resa materica. Storie di incontri sessuali fugaci con uomini si mescolano con un presunto assassino seriale che attira le sue vittime maschili per ucciderle con modalità truculenti. Una macchia di sangue sulla moquette è l’indizio che fa scattare l’indagine. In “L’ira di Narciso” i due personaggi sono lo stesso autore e Gabriel Calderón che Blanco cita come «amico mio, mio fratello, mio alter ego». Anche la collocazione non ha una precisa identità fisica: il drammaturgo nelle note di regia spiega che «tutta la rappresentazione si svolge nella stanza 228 del City River Hotel nella città di Lubiana. O forse si svolge nel Parco Tivoli. O forse in qualche altro luogo».
Quanto ci sia di vero e quanto sia frutto di finzione sta al pubblico decifrarlo e tradurlo nel “patto di menzogna” stipulato con l’autore, attore, drammaturgo e interprete. A parlarne è lo stesso l’autore nella sua opera “Il bramito di Düsseldorf”: «… si apre con una Captatio in cui uno dei personaggi propone quella che finora mi sembra la migliore definizione che sono riuscito a dare di autofinzione» e lo fa dire all’attrice Soledad Frugone che interpreta uno dei ruoli: «… Sergio dice che l’autofinzione rappresenta il lato oscuro dell’autobiografia, e come l’autobiografia si basa su un patto di verità, così nell’autofinzione vige un patto di menzogna...». Un patto di complicità che si viene a creare tra la scena e la platea, assecondando reciprocamente una scelta artistica quanto filosofica, che Blanco ha scelto e conduce con estrema coerenza, capace di portare lo spettatore nei meandri più oscuri e conturbanti dell’animo umano in cui ognuno può scandagliare vissuti ed emozioni. Un oscuro mondo dove la realtà, le citazioni autobiografiche si dissolvono e riappaiono come flash dell’inconscio riemerso dall’oblio della mente.
La “menzogna” come espediente per mescolare verità e finzione è citata anche dal regista canadese Robert Lepage in “Memoria maschera e macchina nel teatro”, trasmesso da Rai 5 il 23 gennaio scorso (un progetto di Annamaria Monteverdi e Simone Cannata e con la collaborazione dell’Immaginarium Creative Studio) in cui spiega la creazione dello spettacolo autobiografico “887 Avenue Murray” di e con Robert Lepage. «La memoria è uno dei riferimenti del teatro di Lepage, memoria personale, biografica ma anche geografica. Dietro la tecnica dell’autofinzione si nasconde il recupero politico, collettivo e della memoria» – a dirlo è Annamaria Monteverdi, docente all’Università Statale di Milano e autrice del saggio omonimo su Lepage edito da Meltemi Editore – , per poi passare la parola al regista che spiega: «Lo stile dello stile dello spettacolo è quello che viene detto dell’autofinzione, una parola un po’ ambigua perché vuole dire che stiamo raccontando la verità per cui è la vera memoria, ma poiché è allo stesso tempo finzione, una memoria più o meno giusta. È la memoria poetica e dunque c’è molta libertà nell’autofinzione. Questo permette di essere autentico e vero, di essere sincero ma allo stesso tempo mi permette di conservare un certo pudore, di non dire tutto, ma di dire le cose in un modo da toccare le persone, da risvegliare la loro intelligenza e la loro sensibilità. Bisogna che ci sia della verità ma un po’ reinterpretata e per questo non è necessario che tutto sia vero ma tutto si basi su un fatto realmente accaduto».
A Sergio Blanco preme invece spiegare come «Nessuna delle mie autofinzioni ha come obiettivo quello di promuovermi o rendermi popolare, al contrario, molto spesso le mie opere sono attestazioni di fragilità e vulnerabilità. Nelle mie storie di autofinzione provo a trovare le storie degli altri, per sentirmi meno solo. D’altra parte, raccontare se stessi, narrarsi, non è mai un atto d’amor proprio, è un tentativo di farsi voler bene».
E la conferma di questo pensiero – confessione la possiamo ritrovare in un testo fondamentale come “Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé” di Duccio Demetrio (Raffaello Cortina Editore), professore di Educazione degli adulti all’Istituto di pedagogia dell’Università degli studi di Milano. Nella quarta di copertina si evince bene come sia autocurativo raccontare di sé: «Sperimentiamo così il “pensiero autobiografico” che richiede metodo, coraggio, ma procura, al contempo, non poco benessere. Questo libro accompagna il lettore nel percorso stilistico e psicologico che intraprende chi scrive della propria vita. Suggerisce quali criteri seguire e spiega perché raccontarsi in prima persona può essere un gioco felice, un’esperienza inusuale che cura, un’avventura dai molti significati».
Scrive il professor Demetrio nel capitolo “Il pensiero autobiografico. I grandi maestri dell’autoformazione” a pagina 60: «Il pensiero autobiografico è tante operazioni cognitive insieme. Talvolta distinguibili l’una dall’altra, talaltra assolutamente fra loro fuse. Entrano in scena in compagnia dei ricordi, quasi fossero “suture” del pensiero alla ricerca di accordi fra loro originali o ricorsivi». E ancora a pagina 65: «Il ricordare è azione contro il dimenticare, per la riaffermazione della vita contro l’ineluttabilità della morte. Pur non potendo essere vinta, essa può essere allontanata; con la conseguenza che, in questo differimento, trova la sua prima gestazione il pensiero che si prende cura della vita individuale, attraverso la descrizione di ciò che si è vissuto e del vivente, che così si istituisce, e si riconosce».
“Una delle ultime sere” ….e provare ancora malinconia per qualcosa che manca e non si ha certezza di quando potrà tornare.