RUMOR(S)CENA – CATANIA – Va in scena fino al 18 luglio nel cortile interno del Palazzo della Cultura di Catania, lo spettacolo Pinocchio, un testo inedito di Franco Scaldati, nell’ambito della stagione estiva del Teatro Stabile di Catania “Evasioni”, con la regia di Livia Gionfrida. Recitano in Pinocchio Aurora Quattrocchi, Alessandra Fazzino, Manuela Ventura, Cosimo Coltraro, Domenico Ciaramitaro, Serena Barone. Abbiamo intervistato la regista dopo il debutto avvenuto l’8 luglio.
Un Pinocchio contemporaneo e siciliano cosa rappresenta al giorno d’oggi per chi conosce la favola di Collodi e viene a vederlo a teatro?
Pinocchio è una storia senza tempo, immortale. Come diceva Giorgio Manganelli è un racconto di “sevizie e amore” e questo lo rende pronto a raccontare il nostro mondo contemporaneo in cui la violenza sembra fare da padrona e in cui, allo stesso tempo e di conseguenza, la necessità di tenerezza, di amore, è quanto mai feroce. La Sicilia che raccontiamo si fa a sua volta grande metafora del mondo, portando alle estreme conseguenze queste pulsioni umane.
Quali possono essere le chiavi di lettura per far capire allo spettatore la drammaturgia di Franco Scaldati che rappresenta uno dei maestri più rappresentativi della scena italiana?
L’opera che ci ha lasciato il Maestro è molto vasta e, pur avendo un carattere riconoscibile, essa contiene al suo interno tanti diversi sapori e colori. Ci sono opere fortemente poetiche, quasi sospese, ed altre in cui fa da padrona la violenza più brutale, ci sono opere mutuate da altri autori, Shakespeare tra tutti, ed altre che si ispirano alla solitudine beckettiana per poi allontanarsene, spinte da un vento lunare carico di speranza e redenzione. Questo autore ci ha lasciato molte chiavi di lettura per la sua opera e il mio percorso di studio intorno alla sua scrittura si è fatto sin dalle prime battute avventura teatrale vera e propria, un percorso di ricerca faticoso ma pieno di scoperte illuminanti.
Avvicinare lo spettatore all’opera di Scaldati vuol dire tentare il rito della poesia. Questa, assieme appunto all’amore, alla tenerezza, sembra trovare sempre meno spazio nel nostro frenetico e affannato quotidiano. Dunque tornare al teatro, al rito collettivo che comincia con il silenzio e il buio, da cui poter fare nascere la parola poetica e assieme ad essa, l’immagine pronta a scatenare una lettura personale nello spettatore. Questo è quello che sto cercando.
La Sicilia ha una tradizione riconosciuta internazionalmente nell’opera dei pupi, un tipo di teatro delle marionette che si è diffuso tipico della tradizione siciliana dei cuntastori. Qui il burattino è un attore ma esistono dei fili invisibili che lo muovono e se sì quali potrebbero essere?
Io sono il sogno del mio Creatore. Questo afferma il mio Pinocchio, in un rimando di specchi e carillon che sul palcoscenico fanno brillare i 6 protagonisti, “spirdhi” commedianti di Mangiafoco che ogni sera recitano (…cretini!, dice Chiarina) e giocano a diventare pupi di legno e ombre che a fine spettacolo svaniscono nell’aria.
Il mio Pinocchio è personaggio e al contempo è simbolo di ribellione, di anarchia. Ho cercato di lavorare in profondità su ciascuno dei sei straordinari interpreti che mi hanno accompagnato in questo viaggio, cercando in ognuno di loro un Pinocchio diverso. C’è in effetti un Pinocchio, uno spirito ribelle, in ognuno di noi. Nel personaggio di Mangiafoco questa ribellione esce solo alla fine, in modo tragico, egli è personaggio duro e ambiguo durante tutto lo spettacolo, ma poi alla fine si trasforma in cigno delicato e la sua passione prende fuoco, fino a bruciarlo; si dà egli stesso fuoco, libero.
Così ho cercato di guidare ogni attore all’interno di un personaggio, che ho cucito su misura per loro, verso un momento di ribellione: la primattrice si libera nel sogno, il pazzo si getta nel mare in cerca della luna, la dolce Chiarina nipote di Mangiafoco si libra nel silenzio puntellato di incanti del paese dei balocchi. Il giovane Pinocchio, ragazzo di strada, resta fedele alla sua inconsapevolezza, incarnando una feroce e tenera richiesta di aiuto che solo una fatina delicata e cruda potrà ascoltare.
Tutti gli animi scalciano e strepitano fino a bruciare, fino al buio della pancia del pescecane (pure lui tremendamente umano nel suo bisogno di non restare solo), fino a sparire come spettro che abita la scena.
Lei viene da esperienze artistiche importanti: all’INDA di Siracusa e dove insegna recitazione e al DAMS di Bologna. Ha collaborato con Luca Ronconi ed Elena Bucci e nel suo curriculum è citata anche l’esperienza svolta in carcere con il suo collettivo Teatro Metropopolare. Il teatro può attraversare dimensioni diverse e contribuire a favorire processi di inclusione?
Io credo fortemente nel teatro. Credo che gli esseri umani possano e debbano oggi più che mai ritrovarsi ancora insieme, ovunque ce ne possano essere le condizioni, che sia un teatro importante, un carcere o una scuola di periferia, per raccontarsi storie, per condividere domande esistenziali e cercare insieme la radice delle proprie emozioni. Credo nel rito del teatro vivo e nel processo di solidarietà tra uomini che deve necessariamente passare attraverso un percorso di vicinanza e di empatia.