RUMOR(S)CENA – GENOVA – Wim Vandekeybus, coreografo e regista belga tra i più originali dell’ultimo ventennio, dopo aver attraversato buona parte dell’ Europa, approda a Genova con Traces, ritornando ad un suo vecchio tema preferito: il conflitto tra natura e civiltà. Il divario è didascalicamente visibile dalla scenografia che, appunto, in codesta occasione è abbastanza ingombrante. Un’autostrada, un tratto della quale corre fino al colmo del soffitto, occupa tutto il palco. Dietro di essa c’è un’infinità di pini nebbiosi, forse un riferimento alle foreste primordiali in pericolo nei Carpazi rumeni?. Nel programma di sala si legge che “Vandekeybus ha tratto ispirazione dalla travolgente natura rumena e le sue foreste primordiali.”
Dopo le produzioni “Mockumentary for a contemporary saviour” (2017) e “Traptown” (2018), Vandekeybus ancora una volta omette il testo e crea una storia fisica, interpretata da dieci danzatori, accompagnati dalle musiche affidate a Trixie Whitley e Marc Ribot, che non eseguono dal vivo, per cui non resta che immaginare la loro violenza chitarristica, accompagnata da percussioni grezze, dal pianoforte e dalla voce soul di Trixie Whitley.
Mentre la colonna sonora è così audace, la trama è priva di direzione. Pare di comprendere che da una comunità nomade, vagamente ispirata al popolo rom, sorge un leader che addomestica il suo gregge come fosse i cani bavosi di Pavlov (lo scienziato russo che ha sperimentato il riflesso condizionato su i cani): il quale non si rende conto che distruggendo la natura distruggerà anche se stesso e la propria gente. Come da copione, Vandekeybus mette ancora una volta il dito su di un problema contemporaneo, ma in questa performance la sua immaginazione è così letterale, che la ricerca dell’animale nell’uomo diventa in qualche modo un espediente. E poi che dire dei tre poveri danzatori costretti in buffi costumi da orso che emergono improvvisamente dalla foresta e reclamano il ruolo principale sul palco? Un po’ triste e disneyano.
Era da molto tempo che Vandekeybus non riuniva intorno a sé dei ballerini così forti e così diversi tra loro, capaci di mostrare il loro particolare spirito e provenienza culturale in duetti ed assoli muscolosi proverbialmente fulminei, anche se però la formula si consumava troppo presto. A parte alcune danze rituali di gruppo, bellissime, il principio di movimento del coreografo ritorna sempre al duello, e ci si stanca velocemente di questo spettacolo di battaglia così noioso. Violenza, follia, rabbia, paura, vitalità sfrenata: tutti gli elementi vintage di Vandekeybus ci sono, ma sono codici collaudati che dicono poco senza una cornice nitida, netta, imponente. Torna alla mente “In spite of wishing and waiting”, un capolavoro di movimento e costruzione continui. Un peccato, perché se c’è qualcuno che, in questi tempi di eco-catastrofe, potrebbe riportarci in contatto con una natura che abbiamo perso, questi potrebbe essere proprio Vandekeybus.
Visto il 6 ottobre 2021 Teatro della Tosse Genova