RUMOR(S)CENA – REGGIO EMILIA – Ti accoglie un freddo grigio anche se il teatro è ben riscaldato. Il grigio si fa via via nebbioso, ti avverte che sei li per metterti alla prova. Lo spettacolo promette vaste sfumature di rabbia, fastidio, paura, pena. Sul palco due dispositivi, sorta di robot grandi come un uomo grande, roteano e controllano, forse fotografano, filmano, intercettano, spiano e sputano lampi che disturbano la vista. Ma è da fare. È il loro lavoro. Sono lì per guardare noi (e non per curiosità). Un sottofondo di rumori metallici, tonfi, mitraglie, non ti mettono comodo. Cerchi qualcosa di più della inaspettata sorpresa da questo straordinario Bros, sei abituato ai bulversanti colpi di scena del regista cesenate, ma questa volta è diverso, non sai dare un nome allo stato d’animo che ti prende mentre tieni un mano una bustina di tappi di cera per le orecchie; nel caso non fossero disposte a sopportare (le distribuiscono all’entrata). Siamo alla Cavallerizza di Reggio Emilia, è il mese di dicembre, a poche settimane dal Natale. Fuori, la piazza è illuminata da luci calde, tradizionali e famigliari. Dentro un colpo alla schiena (metaforico, almeno per lo spettatore).
Bros (fratelli amici compagni) di Romeo Castellucci apre con la figura del vecchio profeta Geremia avvolto in una lunga tunica bianca, anticipando il sudario di sepoltura. Bianca la barba, bianca la polvere che gli copre il viso.“ Il Signore stese la mano e mi toccò la bocca e mi disse: vedi oggi ti do autorità sopra i regni per sradicare e demolire e distruggere abbattere edificare”.
Profeta e padre che per ordine del Signore cuce insieme parole come pietre, ossimori apparentemente: demolire e distruggere edificare piantare punire e ancora punire e perdonare. Fece una brutta fine Geremia, fu lapidato dai suoi stessi discepoli esasperati dai suoi rimproveri. La sua lingua è misteriosa (glossolalia, già la sentimmo in Democrazia in America) è incomprensibile anche all’orecchio di chi la produce, un linguaggio mistico di chi è posseduto, destinato a non essere udito, che ci lascia orfani di una verità (non è forse questo il destino dei profeti?). Una ventina di attori sono in scena, in uniforme nera e cappello rigido con visiera. Non veri attori ma “Uomini dalla strada”, dice il depliant di presentazione, che non conoscono la parte ma la interpretano in diretta, guidati da un auricolare che trasmette ordini.
Nulla è libero. Siamo in una dittatura se non lo avete capito, siamo in una dittatura che non si vede, passa sotto la pelle senza che tu ne abbia coscienza. Quanto sei disposto ad obbedire, quanto sei disposto a comandare? Una sorta di dottrina, scritta bianco su nero su un raffinato foglio gigante consegnato dal personale del teatro, ti accompagna. È l’indice comportamentale. “Sono disposto a diventare un poliziotto in questo spettacolo. Sono disposto a credere di essere un vero poliziotto. Eseguirò gli ordini con estrema serietà. Eseguirò gli ordini con freddezza sacerdotale. Non guarderò negli occhi i miei colleghi. Eseguirò tutti gli ordini anche se non li capisco. L’esecuzione degli ordini sarà il mio teatro.”
Ritornano nelle opere del regista le parole di chi parla in nome del libro sacro, concepite per piegare gli umani all’obbedienza. Schiere di fedeli o di infedeli, nei secoli dei secoli, soggiogate dal comando divino dimenticano di essere essi stessi divini o dimenticano di essere vivi o di essere altro, magari di essere buoni, senza passare dal sacrificio delle loro stesse anime. Ma questo è il passato, dice un motto riportato bianco su nero su un altro foglio distribuito all’ingresso. “Non puoi dire al passato cosa fare” (i motti sono di Claudia Castellucci) “Devi negoziare con i morti”.
Dove siamo ora è il presente, in fondo non tanto dissimile dal passato. Qualcuno (un potente di turno, o un pazzo o un pupazzo di legno, o una scimmia) ti intima di attenerti fedelmente ai comandi, di assumere un impegno che dovrai essere in grado di condurre fino in fondo. I poliziotti rendono omaggio, ritualizzano, si inginocchiano, onorano il padre e celebrano il dio pagano del comando, l’uomo forte, l’uomo/manganello/insanguinato.
La violenza è cieca, si dice, ma è anche ridicola. C’è il timore di sbagliare e al tempo stesso la perseveranza nell’essere fermi e granitici. La violenza ridicola disegna gesti sproporzionati di fronte a obiettivi inermi e rincara la dose per frustrazione al percepire la propria inadeguatezza, come di fronte a un amplesso mal riuscito. Questi fratelli simili, clonati da un unico stampo, moltiplicazione allucinata della stessa matrice, eseguono, non decidono. Ma se per un guasto tecnico la Voce smettesse di trasmettere siamo certi che non verrebbe sostituita da una identica voce interiore? Cosa accomuna gli umani nella performance della violenza? Il comando è dentro di te? E’ già in te? Quella voce da fuori è un utile alibi che ti invita a colpire, disperdere la folla, picchiare, utilizzare gli idranti contro una fotografia, contro una statua di un uomo senza pene, contro l’immagine tenera di una nuca pettinata di un figlio che ti gira le spalle perché di te si fida, sa che lo proteggerai, o almeno lo crede.
C’è una tensione nello spettacolo che diremmo erotica: il gruppo si compatta,si rimette in forma, si dispone per uno scatto fotografico. Il gruppo di stringe, si ritrova, si tocca, si abbraccia, eppure si vergogna per la debolezza del corpo.Un corpo nudo esposto è in terra, colpito sulla schiena le gambe lo scroto le ginocchia (il rumore amplifica fino all’inverosimile i colpi di manganello e una signora piange nella poltrona a fianco a me) tanto che pensi che tale e tanta crudeltà non può essere giustificata da nessun reato. Chi è quel corpo: un compagno che ha tradito? Un ladro, un assassino? Muore sotto i colpi dopo che il suo grido di dolore si trasforma in un gemito di bambino appena venuto al mondo, come quel bambino non può difendersi. Forse si aspettava solo di essere amato. Infine il corpo (sarà pur di qualcuno!?) è cosparso di liquido denso e bianchissimo come latte di madre.
E’ dunque forse l’odio per ciò che resta di fragile e di infantile in noi che fa orrore all’idolo del male, è per questo che si organizza per combatterlo? In tanto buio brilla l’ambiguità del distintivo. Nella coreografia scomposta dei poliziotti tra ombre e luci brilla il distintivo, è lucido sempre, se lo intravvedi la notte e tu sei solo/a in strada non sai se avrai protezione o vendetta, perché non sai chi sei tu agli occhi della massa compatta dei supervisori dell’ordine. Sei sempre un potenziale nemico dell’ordine.Tra le gigantografie che entrano sulla scena tra colate d’acqua e sangue, improvvisamente appare l’immagine di una donna. Viso e busto, bionda, con i capelli raccolti in una coda di cavallo.
I 20 “dalla strada” all’unisono gettano in terra ognuno il proprio manganello/fallo e scappano, si accucciano, cercano un nascondiglio e tremano di paura. “Un lato che appare non è niente senza quello che non appare -dice il motto – Pars quae apparet sine parte quae non apparet nihil est “. Intimo e intimidazione paradossalmente sono parole che si assomigliano. Corazzati contro ogni moto dell’anima sono disposti a uccidere piuttosto che lasciarsi toccare con le mani. Nell’ultima scena davanti a tutti appare un bambino, con la vestina bianca e i piedi nudi. Avrà quattro anni o forse cinque. Nuovo profeta inascoltato. Sulla veste bianca all’altezza del petto qualcuno ha già apposto il distintivo.
Visto alla Cavallerizza di Reggio Emilia il 2 dicembre 2021