RUMOR(S)CENA – FIRENZE RIFREDI – Portare sul palco una riduzione de I Promessi Sposi che, aldilà della valenza universale, voglia rivolgersi soprattutto a un pubblico di ragazzi e per giunta affidarla a una compagnia che non supera la media dei trent’anni, avrebbe potuto offrire la sponda ad un certo escamotage. Del resto, il giovanilismo è un peccatuccio poco più che veniale e fa gioco tanto agli adulti quanto ai ragazzi. “Giovane” è una di quelle parole dietro le quali ci si barrica spesso e, prestando attenzione a non far sentire la doppia G iniziale, anche i ragazzi hanno imparato a usarla per giustificarsi di qualsiasi marachella. Maledetti, disse la Befana.
Ma il testo che Angelo Savelli ha ideato attorno al romanzo di Manzoni, “Questo Spettacolo non s’ha da fare”, si è tenuto ben lontano da quel mezzuccio come da molti altri. Per gli attori che lo hanno interpretato, l’età anagrafica non è stata una scappatoia ma una responsabilità e comunque in secondo piano rispetto a quella di essere, oltre che giovani, dei professionisti. Ce ne accorgiamo sin dall’apertura del sipario, anzi prima, quando le luci sono appena calate sulla platea e Simone Marzola appare sul palco presentando agli spettatori ciò che stanno per vedere: I promessi Sposi in commedia, o meglio, due commedie. Senza altro indugio, ecco il resto della compagnia schierato attorno ai pochi elementi di scena: maglietta bianca, jeans e sneaker rosse, guitti e guizzanti Olmo De Martino, Mauro D’Amico, Antonio Lanza, Fabio Magnani, Diletta Oculisti, Elisa Vitiello e Simone Marzola ci annunciano l’inizio del primo capitolo. Con l’aggiunta di un pizzico di vestiario seicentesco calano gli spettatori in medias res. Immediatamente siamo nella casa di Agnese, dove Renzo e Lucia rinnovano reciprocamente la promessa, ma ci mettono a parte delle ben note difficoltà che dovranno affrontare perché possa essere mantenuta.
È da qui che si scatena una divertente messa in scena tra Goldoni e il teatro di strada, dove la sfida maggiore è il mantenimento del tempo. Operazione riuscita, perché al netto di qualche inceppamento il tessuto ritmico rimane ben teso e la velocità non indifferente che la regia di Angelo Savelli e Ciro Masella richiede (col fluido alternarsi dei quadri, che ruotano attorno al perno degli oggetti sul palco, per evocare i differenti ambienti di quel ramo del lago di Como) coinvolge e diverte nel suo bell’equilibrio tra il farsesco e il veristico. Complici i contrappunti musicali, di garbata misura e qualità produttiva, ad opera di Federico Ciompi. C’è poi l’azzeccatissimo dispositivo della didascalia: l’attore per un attimo sospende l’interpretazione per fornirci coordinate su quello che sta accadendo, evocando le note a fianco al testo sulle quali si posava il nostro sguardo durante le mattinate a scuola. Il libro in quanto oggetto, quel librone che era pesante ma ora sul palco sembra così leggero è in qualche modo più volte evocato in “Questo Spettacolo non s’ha da fare”: fisicamente, quando il narratore Simone Mazzola lo porta in scena per bacchettare l’ Azzecca Garbugli (Mauro D’Amico) della troppa libertà con cui pilucca termini dalle varie versioni degli sposi, e a livello dell’immagine che tratteggia la scansione drammaturgica, così simile a un libro che viene sfogliato. Costola della storia è la notte degli inganni, il cui rapidissimo divide la prima commedia in costume dalla seconda, più essenziale e caratterizzata da un respiro di approfondimento sui personaggi.
Di quest’ultima colpisce un Addio ai Monti… polifonico. Il testo viene suddiviso tra le voci dei vari personaggi, evidenziando il dramma di ognuno che nel crescendo della sovrapposizione diventa parte di una preghiera collettiva. La commedia del destino, del caso o della provvidenza si svolge stavolta senza alcun movimento di luci, gli attori hanno abbandonato i costumi. Si tenta un affondo del quale la morte di Don Rodrigo, interpretato dal bravo Olmo di Martino, rappresenta forse il miglior esempio. Il suo perfido nobilastro, ora vittima della peste, attira credibilmente un cenno di affetto da parte degli spettatori, che volentieri gli concedono di cavalcare nella calca che lo disarcionerà, offrendogli una fine degna del più nobile dei condottieri. Olmo di Martino evoca il momento e i suoi significati con capacità espressiva e di sintesi. Offre una prova molto interessante anche Fabio Magnani: vederlo recitare è un vero piacere. Con la sua naturalezza nel gestire registri, colori e dinamiche si evidenzia come catalizzatore della buona riuscita dell’interplay quando condivide la scena.
Sempre a proposito delle facili soluzioni accuratamente evitate da questa riduzione moderna, che vuol riavvicinare e appassionare il pubblico a I Promessi Sposi, con gioia possiamo garantire la pressoché totale assenza di anacronismi linguistici e forzosi inserimenti di parole o immagini “modernizzate” per ingraziarsi i giovanotti in sala: le parole sono quelle del romanzo, punto. E meno male. Ci si aggira forse nei dintorni dell’eccezione, soltanto in un tentativo di parallelismo tra la peste milanese e l’epidemia Covid 19, del quale ad essere onesti è il pubblico ad accettare la captatio, senza che in scena venga adoperato molto di più che l’espediente di far indossare le mascherine chirurgiche agli attori. Un momento a proposito del quale la discussione può fermarsi di fronte al suo mantenimento del registro generale, rispettando comunque la visione degli autori.
Questo spettacolo, in conclusione, s’aveva da fare. Perché è un prova di responsabilità collettiva di fronte a un’operazione non facile che ha saputo comunque generare un prodotto di intelligente leggerezza. La responsabilità di tutti gli attori di fronte al lavoro degli autori e di quest’ultimi di fronte a un’opera importante. Con rispetto e senza timore, come fanno quelli grandi.
Visto al Teatro Di Rifredi l’8 Dicembre 2021