RUMOR(S)CENA – MILANO – Quali possono essere le ragioni per prendere un’opera letteraria nata per la pagina stampata e, nelle intenzioni dell’autore, destinata a rimanervi, per farla diventare un’altra cosa, per esempio uno spettacolo teatrale? Alberto Oliva, giovane ma ormai sperimentato regista uso a queste operazioni, specie nei confronti di uno dei suoi autori più amati, il non-drammaturgo Fëdor Dostoevskij, col suo Il sosia riesce a mostrarne diverse, piuttosto intriganti.
Il romanzo, scritto negli anni giovanili, ben prima della macabra messinscena della falsa fucilazione e della deportazione in Siberia, fatti che avrebbero profondamente segnato la vita dello scrittore, non ha il respiro filosofico delle successive grandi opere ma, benché a un primo sguardo possa apparire la semplice cronaca di una malattia mentale, nella lettura di Oliva evidenzia la sua derivazione da quel filone fantastico, connaturato alla cultura e alla tradizione russa, frequentato da Gogol’, e poi da Leskov.
Oliva e lo scenografo ungherese Csaba Antal sembrano essere stati attratti da questo registro, quasi surreale, e a tale interpretazione contribuiscono con convinzione i due attori: Elia Schilton e Fabio Bussotti (che ha curato anche l’adattamento teatrale). Il risultato è una cosa altra rispetto al testo dostoevskiano. Sul fondale si proietta la suggestiva immagine della celebrata, policroma chiesa del Salvatore sul Sangue Versato che ci ricorda l’ambientazione del romanzo (il cui sottotitolo suona Un poema pietroburghese), alternata a frammenti di feste da ballo in interni sontuosi, a successioni di immagini che risucchiano ipnoticamente lo sguardo, mentre due imponenti strutture spostate a mano, ora specchianti, ora trasparenti, moltiplicano i personaggi, come in un gioco beffardo e allucinatorio.
Catturato da questo molteplice vortice di immagini, Elia Schilton trascina lentamente ma inesorabilmente lo spettatore nel gorgo dell’alienazione autodistruttiva del povero consigliere titolare Goljadkin, in una spirale di eventi quasi kafkiana. Ma questo precipitare nella follia si intreccia con almeno altri due topoi letterari sottesi al testo: la maschera e il doppio. Il sosia (in russo, dvojnik, che deriva appunto dalla parola “doppio”), scritto nel ’46, segue di pochi anni la pubblicazione di William Wilson, col quale Edgar Allan Poe nel ’39 aveva esplorato, con toni non meno angoscianti, il medesimo argomento; oltre cinquant’anni dopo, anche Il ritratto di Dorian Gray, di Oscar Wilde si può considerare un’ulteriore variazione sul tema. Quanto al reiterato, quasi ossessivo riferimento del protagonista alla maschera, che ognuno di noi porta sul volto, ci fa pensare alla poetica di Pirandello.
Ed è proprio ricorrendo all’espediente di una inquietante maschera, nella sua intrinseca ambiguità funzionale, che la regia mostra in scena anche quel doppio, a un tempo allucinazione ossessiva e proiezione speculare del povero funzionario pietroburghese. E, anche qui, la memoria torna a Pirandello, e alle elucubrazioni sull’identità cui è indotto Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila, nate dal suo guardarsi allo specchio. Senza voler sottolineare più di tanto questi possibili apparentamenti, antecedenti e conseguenti, il valore della messinscena risiede nell’aver mostrato quanto possa essere feconda la sfida di una sua traduzione nella varietà dei registri espressivi propri del linguaggio teatrale, laddove la parola scritta si affaccia al mondo dell’irrazionale e del fantastico. Come in questa versione, che accoglie in sé e amalgama in un progetto coerente lo strumento verbale e gestuale dei due ottimi interpreti; quello visuale, di una scenografia dinamica e dei video di Alberto Sansone; quello sonoro, con le coinvolgenti musiche originali di Gabriele Cosmi.
Visto al Parenti di Milano, sala AcomeA, il 22 marzo 2022