RUMOR(S)CENA – MILANO – Voce, Maschera, Specchi. Basterebbero solo queste tre parole per far emergere l’essenza della splendida riduzione teatrale de Il sosia di Fëdor Dostoevskij andata in scena al Franco Parenti di Milano dal 22 marzo al 10 aprile 2022. La riuscita di questo adattamento era già da mettere in preventivo dato il coinvolgimento del regista Alberto Oliva che, insieme a Mino Manni, ha curato in questi anni una serie di felicissimi spettacoli tratti dall’opera narrativa dello scrittore russo. Tuttavia, crediamo che ridurre Il sosia in una pièce non sia stata impresa facile, poiché si tratta di un’opera certamente nota ma abbastanza oscurata dai grandi capolavori della maturità dostoevskijana come Le memorie del sottosuolo, Delitto e castigo, L’idiota, I demoni e I fratelli Karamazov.
Il sosia (pubblicato nel 1846 insieme all’altrettanto sottovalutato Povera gente) riprende senza troppo variare una trama che potrebbe essere uscita dalla penna del Nikolaj Gogol’ de I racconti di San Pietroburgo, in quanto Dostoevskij raccontala lenta, dolorosa ed inesorabile caduta nella pazzia manifesta del mediocre, fragile ed emarginato impiegato Jakov Petrovič Goljadkin . Una follia certo latente già percepibile all’inizio sia del romanzo sia dell’adattamento quando il protagonista si guarda ossessivamente allo specchio ma acuita nel momento in cui, dopo innumerevoli umiliazioni lavorative e sentimentali, l’eroe si imbatte nel proprio sosia durante un vagabondaggio notturno in una San Pietroburgo misteriosa e onirica.
Il sosia, che incarna la parte ‘vincente’ del protagonista, è un personaggio spaventoso e allo stesso tempo comico, che si diverte a punzecchiare Goljadkin umiliandolo fino a condurlo alla pazzia. Ma esiste veramente questo sosia o è una solo una proiezione della coscienza disturbata di Goljadkin? Rispondere a questa domanda è impossibile, dato che la regia, cogliendo indirettamente ciò che il teorico della letteratura Michail Bachtin considerava come l’aspetto saliente dell’estetica e dello stile di Dostoevskij, non mette in scena Goljadkin bensì l’ irriducibile e personale punto di vista del protagonista sulla realtà e su sé stesso.
Per adattare una così complessa concezione del personaggio dostoevskijano, Oliva si fa aiutare da un magistrale Elia Schilton, quest’ultimo impegnato già in passato con l’opera dello scrittore russo (lo ricordiamo nella sua memorabile interpretazione nei panni del mediocre maître à penser Stepàn Verchovenskij nel monumentale adattamento de I demoni diretto da Peter Stein). Il Goljadkin di Schilton si presenta statuario, con i cappelli perennemente arruffati ed una visagéité estremamente espressiva (la faccia dell’attore sembra una maschera!). L’aspetto esteriore di questo Goljadkin connota anche tutte le sue azioni mirate all’autodeterminazione orgogliosa della propria autocoscienza e alla liberazione dalla prigionia del conformismo della società attorno a lui. All’autorevolezza del corpo e delle intenzioni del Goljadkin di Schilton si contrappongono però le incertezze che articolano la sua voce che, spostandosi con naturalezza tra gli estremi dei registri e dei colori, è in grado di incorporare tutta una variegata gamma di toni emotivo-volitivi (timidezza, tristezza, paura e cinismo).
L’irrequieta voce di Goljadkin/Schilton è controbilanciata da quella volutamente monotona dei molteplici personaggi interpretati da Fabio Bussotti, che è anche autore della drammaturgia. Quasi ad incrementare l’effetto di condensazione onirica del delirio del protagonista, Bussotti non solo veste letteralmente la maschera grottesca, buffa e spaventosa del sosia di Goljadkin ma metaforicamente indossa anche quella di tutti i personaggi ‘minori’ del dramma (il dottore, l’usciere, il collega impiegato e il servo) e, specialmente, quella di un anonimo narratore intento a descrive le azioni e comportamenti del protagonista con ironico e sprezzante distacco. Osserviamo anche che la scelta di un cast minimale è, meta-teatralmente parlando, molto felice: chi meglio dell’autore della sceneggiatura Bussotti sarebbe stato in grado di interpretare e riassumere in sé tutte le maschere di quelle Alterità (reali o fittizie che siano) contro cui l’eroe modella (ma, allo stesso, distrugge) la sua personalità e le sue intenzioni?
Tuttavia, se Alberto Oliva e Fabio Bussotti si fossero limitati alla valorizzazione del punto di vista dell’eroe e dell’intreccio dialogico, probabilmente questo adattamento de Il sosia sarebbe stato sì efficace ma sarebbe risultato fin troppo didascalico. Fortunatamente non è stato così, perché un ruolo fondamentale nello spettacolo è rivestito dall’intelligente scenografia di Csaba Antal. L’azione del dramma, infatti, si svolge tra gli spigoli di lastre trasparenti e riflettenti che, muovendosi, fanno emerge per “magia” non solo il sosia del protagonista ma anche il punto di vista frantumato dell’autocoscienza Goljadkin.
La scenografia quindi sembra suggerirci che il mondo del povero impiegato è una soglia tra la realtà e l’immaginazione, tra la sanità e il delirio, tra l’io isolato e la molteplicità delle identità possibili. Il lavoro di Csaba valorizzato ulteriormente dai giochi di luci curati da Paolo Casati, dai video psichedelici di Alberto Sansone e della musica di Gabriele Cosmi – non si limita però a creare le rifrazioni in cui un personaggio pirandelliano ante litteram si specchia e ricerca la propria identità. La scenografia semovente, infatti, crea anche lo spazio ‘fisico’ che isola dal mondo esterno il povero Goljadkin. Da una scena all’altra, i pannelli di plexiglas si spostano, creando così la stanza da letto, lo studio del medico, la carrozza, le porte dei palazzi aristocratici e gli uffici della burocrazia. Questa plasticità della scena crea dei veri e propri spazi claustrofobici che per noi spettatori, posti all’infuori della cornice estetica, sono trasparenti mentre per il protagonista sono mura, specchi, porte chiuse o da aprire che rappresentano varie spazializzazioni della sua coscienza.
Il movimento di questa scenografia ‘parlante’ sembra quindi seguire il ritmo del vissuto emotivo-volitivo di Goljadkin fino all’amaro epilogo in cui, finalmente all’infuori della struttura riflettente, il protagonista confessa quello che, in fondo in fondo, è sempre stato: un pazzo. La riuscita estetica di questa messa in scena è quindi felicissima, ed in grado di farci soprassedere anche sul piccolo errore filologico di una delle immagine proiettate sullo sfondo (quella Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato eretta solo a cavallo del XIX e XX secolo nel luogo della morte di Alessandro II). Il valore di questo adattamento de Il sosia risiede nell’aver mostrato quanto possa essere feconda la sfida di portare a teatro Dostoevskij, poiché ciò da la possibilità a talenti come quello di Oliva, di Schilton, di Bussotti e di Antal di tradurre lo stile dello scrittore russo attraverso i materiali espressivi che il teatro ha a sua disposizione. Tuttavia, è vero anche il contrario: questa riduzione de Il sosia ci fa apprezzare come anche la prosa di Dostoevskij sia debitrice della teatralità intrinseca della vita quotidiana e che quindi l’opera dello scrittore russo possa prestarsi, per sua natura, a un’osmosi transmediale. Si deve essere grati a Il sosia di Alberto Oliva per averci quindi fatto riscoprire la soverchiante e sconfinata estetica dostoevskijana.
Visto al Teatro Franco Parenti di Milano