RUMOR(S)CENA – MODENA – Tiago Rodrigues oggi lo può dire, sarà il prossimo direttore del Festival di Avignone. Per annunciarlo ha aspettato il ballottaggio tra Macron e Le Pen, lasciando intendere che in un momento, un colpo di spugna avrebbe potuto spazzarlo via. Così, tanto per cominciare, lancia una scheggia di quello che intende per fascismo. Una conversazione con l’autore è stata organizzata da Ert al teatro Storchi di Modena poco prima dell’inizio dello spettacolo “Catarina e a beleza de matar fascistas”, titolo che in Italia ha suscitato violente polemiche da parte di una destra colpita nel vivo.
L’autore, già direttore del Dona Maria II di Lisbona, dialoga con Gad Lerner (la conduzione affidata alla direttrice dell’Istituto storico di Modena, Metella Montanari e la traduzione di Vincenzo Arsillo) e anticipa lo spirito dello spettacolo che si potrebbe concentrare nell’imperativo: “Non esitate a fare il male per realizzare il bene” (queste almeno le parole portate in scena per tre volte dai suoi attori nella prima parte dello spettacolo). In particolare l’ imperativo è rivolto a Catarina la più giovane della famiglia di Baleizao (una madre con due figlie, due uomini suoi fratelli, un terzo più anziano, con il figlio) che ogni anno si riunisce nella casa di campagna in un villaggio del sud del Portogallo per celebrare bellezza e morte, con l’uccisione di un fascista. Catarina per questo scopo ha rapito il suo primo fascista e si prepara a onorare una tradizione antica, inaugurata dal tempo in cui un’altra Catarina, la bracciante Catarina Eufemia, fu assassinata. Era il 54, c’era la dittatura. Il rituale si ripete come una festa di Natale. La tavola è apparecchiata, c’è il vino buono, il revuelto di uova e asparagi e la carne di maiale, i piatti si sfornano rispettando una stretta genealogia culinaria, con quella ripetitività che crea legami e non lascia scampo.
Sono i piatti che preparava la madre e prima di lei la madre della madre, e indietro nel tempo un’altra donna, che ancora commuovono al primo assaggio. Tutti si danno lo stesso nome nel giorno del matar fascistas, anche i ragazzi e il vecchio. Tutti hanno gonne lunghe a balze, insomma tutti sono Catarina perchè al cuore del sopruso, sempre e in ogni luogo, c’è la violenza alle donne. Se oggi è rito, serve uno scatto, per immortalare l’evento. La famiglia stretta si prepara per la foto di gruppo e disegno un corpo unico e compatto che inspira ed espira all’unisono. Ma impercettibili insofferenze si avvertono: un prendere spazio, i fianchi si sentono stretti, qualcuno spinge con la spalla, si divincola, parte uno uno schiaffo sulla mano che ti tiene. Quanto soffoca questo essere indissolubilmente insieme, motivo e significato di ogni combattente?
Poi qualcosa non va come deve andare e Catarina si scopre incapace di sparare e si rifiuta di farlo. Punta la pistola sul fascista ma non tira il grilletto. Non per paura, lei non ha paura, per questo è invidiata e ammirata da tutta la famiglia. E’ che Catarina ha un dubbio che la illumina, e lo ascolta, tradendo il cammino di iniziazione che l’è stato generosamente riservato dalla comunità. Un dubbio tutto suo, non il comandamento di una legge divina. Chi è un fascista? C’è posto per la violenza nella conquista di un mondo migliore? Possiamo noi rompere le leggi della democrazia mentre la difendiamo?
Ora un dubbio attraversa noi, stimolato dal travestimento in foggia femminile e dalla scenografia geometrica che scompone e ricompone la casa come una trappola. Se il diktat che recita “non basta essere contro, bisogna agire contro”, (sia esso di comunità, di partito, del libro sacro, del sangue della prima volta esposto, del testamento di chi non c’è più ma che ha la forza di inchiodarti al passato…) se l’imperativo contempla un’ indiscussa ribellione come non comprendere anche la ribellione di Catarina? A tratti fa da sfondo una canzone di lotta, di quelle che muovono l’adrenalina, accendono i cuori all’unisono, e fanno marciare allo stesso passo e amare tutti i fratelli. Una canzone assai famigliare alle nostre orecchie: “fischia il vento infuria la bufera scarpe rotte eppur bisogna andar…”.
Rodrigues lo ha svelato prima dell’inizio dello spettacolo, non è stato facile tradurla in portoghese, la parola “ribelle” (ogni contrada è patria del ribelle) non ha una rima, è una parola solitaria. Tremendamente solitaria. Dunque ognuno in fondo cura le proprie ferite oltre a quelle del mondo? E ogni ribellione è diversa da un’ altra. Altrimenti che ribellione è? Scoppia un litigio che incrina la volontà di Catarina di allontanarsi dalla casa di famiglia e andarsene. La madre si batte il petto gonfio di sensi di colpa per non averla saputa educare alla violenza giusta e bella, chiede stizzita la restituzione degli abiti con cui la ragazza si appresta ad andare. Non è previsto quel gesto di libertà, come a dire: non sei più niente fuori di qui, dunque non hai diritto a niente, nemmeno al golf di lana, rosso, che ti ho regalato.
E ci piace questo filo femminile che lega la narrazione e suggerisce una lettura urgente e poco frequentata della Storia. E’ sul sacrificio delle donne che si fonda la comunità, (ce lo insegna l’antropologia, disciplina inascoltata dalla politica insieme alla psicoanalisi), se è lei a ribellarsi tutto cade a pezzi. Infine al fascista in ostaggio, al quale Catarina risparmia la vita, non è servito a niente battere i denti dalla paura, si aggiusta la cravatta e riprende vigore e ci propina un discorso/comizio, infinitamente lungo, scandaloso e disturbante per il pubblico in sala che rumoreggia o sbuffa o grida. Un proclama infarcito di indecente retorica sui temi cari al razzista sessista nazionalista sovranista, vera e propria apologia della violenza istituzionale, per il “bene del paese”, a cominciare da quella domestica, primo mattone dell’edificio fascista.(“Insomma che qualcuno gli spari!!!”).
Ora la famiglia di nuovo ricompattata sulla sinistra del palcoscenico, (ognuno con una pistola tra le mani) lo lascia dire, lo ascolta, resta vigile. E questo succede adesso, non prima. Adesso grazie a Catarina, e grazie a una visione magistralmente resa dal regista, dove tutti cadono morti, uno dopo l’altro, colpiti da colpi sparati non si sa da chi, che arrivano da ogni dove, segnalando un rischio reale di una carneficina senza fine, di una violenza che chiama violenza. Dunque saremo in grado di ritrovare la potenza della parola/azione? Depurata dalla nostalgia del vecchio zio, che ascolta la voce libera delle rondini poi si lascia tentare dall’idea di fare affari col fascista, dall’inflessibilità della sorella che impaurita sembra perdere la bussola, dalla gelosia della madre che non si è potuta permettere altro che quello che è.
Non dovrebbe essere difficile trovare una nuova voce, una volta smascherata la menzogna e la manipolazione dell’avversario. Ma poi basterà una narrazione ad essere salvifica? Ci piace che Gad Lerner, prima dell’inizio dello spettacolo ricordi l’amatissima Lidia Menapace, politica, femminista, resistente, staffetta partigiana che si rifiutò di imbracciare i fucile ma trasportava candelotti di dinamite nel cestino della bicicletta, per far saltare i ponti e fermare la strada ai carri tedeschi. E, ancora, in un equilibrio faticoso tra le nostre intime voci, ci viene in mente il libro di Luisa Muraro, filosofa, femminista, con un titolo nato da una scritta di vernice su un muro: Dio è violent (senza e finale). Contempliamolo anche l’uso della violenza, ovvero della disponibilità di tutta la nostra forza, per andare fino in fondo alla resistenza e all’opposizione, perchè questo fa bene alla salute e all’umanità.
Lo spettacolo resta fino alla fine doppio, aperto, e saturo di dubbi. Perché sì, la violenza è orrore ma tutte le Catarine restano armate, a ricordarci, chissà, che certe volte è necessario, magari non bello, matar fascistas. Spettacolo impegnativo, denso, poetico, ironico, in una parola geniale. Se lo avete perso a Modena cercatelo altrove. Vale la pena.