RUMOR(S)CENA – PARMA – Io penso al teatro di Lenz Fondazione come a un teatro che emerge dai paradossi, un mare le cui onde fende come un vascello leggero e libero, sorta di Flying Dutchman che appare e scompare all’improvviso. Perché, in fondo, è un teatro costruito intorno ad un paradosso fondativo e generativo, quello di essere fatto di corpi e insieme di luce, tra concreto e immateriale, tra materiale e spirituale, tra crudeltà e salvezza, una contraddizione che, all’improvviso quasi, si risolve nella parola drammaturgica che porta la scena oltre, al di sopra, in una sintesi che è conoscenza nuova e talora inaspettata.
Questo significa “essere capaci di vedere il mondo”? Forse, ma è già una interrogazione che custodisce in sè la propria risposta. Del resto il teatro stesso è una contraddizione (una finzione della realtà, un concreto infingimento) chiamata a risolversì da sé e in sé durante il transito scenico.
Catharina von Siena è il loro ultimo lavoro, tratto da…, anzi no ispirato a…, nemmeno è un tutt’altro che nasce dalla suggestione del dramma incompiuto di Jacob Michael Reinold Lenz, che ha dettato il nome della Compagnia e non solo, ma che di quel dramma concepisce e custodisce il segreto, il senso profondo di un cammino verso la luce. Anche la Santa di Siena è solo una suggestione che suggerisce dove siamo, dove dobbiamo pensare di essere, un anfitrione che subito ci abbandona a noi stessi, alla nostra irriducibile responsabilità quella che drammaturgo/imagoturgo e regista (il termine è limitativo in quanto il lavoro di Maria Federica Maestri è molto di più) ci chiamano a condividere.
Più che narrarci della trasfigurazione di una santa, la Santa Mistica per eccellenza dell’immaginario della nostra cultura, lo spettacolo (e si prenda il termine non in senso riduttivo ma nella sua intima etimologia) trasfigura sè stesso attraverso dodici quadri/prove che portano il corpo concreto della scena, nelle sue articolazioni soggettive e nella sua collettivamente condivisa oggettività, un uno fatto di molti, fino al confine. Cosa ci sia oltre spetta a noi guardarlo, così che anche noi possiamo essere capaci di vedere il mondo.
Sono inevitabilmente dodici stazioni di una via crucis, in cui la croce è il desiderio di morte che conquista nuova vita, dodici stazioni in cui simboli e metafore del viaggio e della trasformazione mistica assumono le concrete forme della vita e della creatività/generatività femminile (oltre il suo stesso corpo e genere), dai lavabi incolonnati in cui scorre il verbo/sangue di Cristo o viceversa, ad un letto di malattia, ad un divaricatore in cui si perde, senza dissolversi, la sessualità femminile. Tra queste dodici stazioni si muove la bravissima Sandra Soncini (“interprete estrema” dell’opera, la definiscono i drammaturghi), e insieme a lei si muovono le altrettanto brave Carlotta Spaggiari e Tiziana Cappella, storiche performers del gruppo, tutte completamente dentro il ruolo.
Nell’ultima infine: come il corpo della protagonista si spoglia dei suoi abiti (i ruoli nel mondo) per attendere di essere raccolta come una fragola da ciò o da chi è oltre il confine, così il teatro si spoglia di sé stesso, perché per risorgere è necessario prima morire. In tutto questo la parola drammaturgica del raffinato testo di Francesco Pititto, sempre molto lirico ma mai enfatico, raccoglie, avvicina e ricuce i lembi di due mondi che viaggiano paralleli senza mai incontrarsi, fisica delle sostanze e metafisica della mente o dell’anima, e ci aiuta a vedere nel buio che siamo e in cui siamo.
È Lenz(J.M.R.), la pazzia di chi combatte ingiustize e luoghi comuni, contrapposizioni e diseguaglianze oltre la politica, quindi è profondamente la politica. Uno spettacolo, come tutti quelli di Lenz Fondazione, profondo e anche inquietante, che indica strade, fa molte domande ma suggerisce pochissime risposte, un teatro che esprime un bisogno, un bisogno di autenticità, un bisogno di verità e che cerca, non conoscendoli, gli oggetti e i corpi che queste verità possano esprimere. Come di consueto va a fondo e non fa alcuno sconto, né a sé né agli altri.
Va detto che è la quarta volta che Lenz (Fondazione) si confronta con Lenz (Jakob Michael Reinhold), quasi a ricercare in esso la forma di ciascuna delle tre età dell’uomo di cui alla edipica Sfinge, “dal furore adolescenziale delle prime apparizioni”, scrivono Maestri e Pititto nel foglio di scena, “nella sofferenza delle visioni giovanili, nell’estasi mistiche della maturità..”
La quarta è dunque l’età che sta oltre la Storia e che ha compiuto infine il suo cammino? Un cammino segnato da un corpo, man mano, crudelmente depauperato non per scomparire ma, ulteriore paradosso e contraddizione, per trovarsi. Torna in questo alla mente il Digiunatore di Franz Kafka, insieme uomo di spettacolo e mistico della fame, alla disperata ricerca, in quella pratica, di una indispensabile sincerità. Una pièce, più che al femminile, intensamente femminile che ha accompagnato, nella sua prima apparizione, il convegno FEMMINISMI E SANTITA’, due eventi capaci di integrarsi e di mostrare una reciproca inter-attività che sorprende. Due eventi che indicano la capacità di fare cultura alta da parte di Lenz Fondazione, divenuto un po’ alla volta, oltre la compagnia di teatranti, un modo innovativo di elaborazione del pensiero scenico.
Digiuno e povertà, libertà e liberazione, morte e resurrezione, pratiche che intersecano femminismi e metamorfiche santità, pratiche in cui il teatro si ritrova compagno di conoscenza e consapevolezza, a partire dai suoi miti/riti dionisiaci che ne sono fondamento.
A LENZ TEATRO, Parma, il 17 giugno.
CATHARINA VON SIENA
Re-edition 2022
Di Jakob Michael Reinhold Lenz.
Riscrittura, imagoturgia Francesco Pititto. Composizione, installazione, costumi Maria Federica Maestri. Musica Andrea Azzali e Adriano Engelbrecht.
Interprete Sandra Soncini. Performer Tiziana Cappella, Carlotta Spaggiari.
Produzione Lenz Fondazione