Ciò che stupisce di più nell’andare a teatro per assistere ad uno spettacolo di Emma Dante, prima ancora che vada in scena, è l’attesa fremente del pubblico, la sua partecipazione emotiva, e non da ultimo la contabilità che conferma il tutto esaurito ad ogni sua replica. Non sono trascorsi così tanti anni, da quando questa regista (e attrice) ha esordito sulle scene, segno inequivocabile che l’artista possiede un segno creativo dirompente, capace di intercettare desideri e aspettative che circolano in una larga fetta della società che frequenta il teatro, anche per farsi coinvolgere da interrogativi esistenziali, lasciarsi trasportare in un mondo immaginifico, al fine di trovare sollievo e conforto ad un’apatia generalizzata e incline a considerare tutto e tutti, come qualcosa di superficiale, ordinario, trascurabile, anestetizzante. Emma Dante ti permette, al contrario, di cogliere lo stridere delle contraddizioni che sono alla base della vita attuale, le pulsazioni che risalgono dal ventre e passano per il cuore e arrivano alle tempie, dove risuonano come tanti colpi di martello sull’incudine.
È l’energia che circola fin dall’attesa spasmodica nel foyer dei Teatri di Vita di Bologna, prima di avere accesso in sala dove tutto si fa elettrizzante. E così è stato anche per la replica de La Trilogia degli occhiali, vista in una sera di nebbia, calata inesorabilmente sulla città, e in grado di creare qualcosa di simile ad un’ atmosfera metafisica all’evento. Tre occhiali distinti per tre episodi autonomi, tre temi in cui le tematiche proposte, povertà, malattia, vecchiaia, si possono riunire insieme in un unico disegno drammaturgico e registico complessivo, anche se il risultato non è così omogeneo. La regista conduce una sua ricerca espressiva da sempre in questo senso e lo fa con una sua cifra stilistica che la contraddistingue. La sensazione provata fin dall’inizio del primo titolo proposto, Acquasanta e confermata nel proseguo della visione complessiva di tutti e tre gli episodi, (Il castello della Zisa e Ballarini sono gli altri due) è di un progetto, che pur mostrando bagliori di luce che illuminano gli oscuri meandri della nostra fragile esistenza terrena, non sfoci in un esito finale convincente. È come se il compiacimento intrinseco all’idea che è alla base dell’intento drammaturgico si perda per strada e la sua realizzazione rimanga su una superficie estetica (originale e affascinante nel suo divenire creativo), ma senza entrare mai in dinamiche più complesse. Manca di un’incursione più profonda e resta più una rappresentazione capace di sfiorare, intuire, ma non di incidere a fondo.
L’idea originale si esaurisce e sfuma via. La mano registica sul lavoro degli attori, tutti dotati di una capacità di impersonificazione dei ruoli straordinaria, è notevole, sia dal punto di vita della caratterizzazione che della flessibilità dimostrata dai corpi (un esempio tra tutti la dinamicità di Claudia Benassi e Stéphanie Taillandier, tutte e due ironiche ed eleganti nel loro intercalare il movimento ad un fraseggio simile ad un gramelot buffo e divertente) e l’abilità creativa di utilizzare pochi arredi scenici per creare mondi paralleli e fantasmagorici. In questo Emma Dante crea nella sua Trilogia un sogno che appare e aleggia come una visione di sapore antico, di un teatro ancestrale, un recupero storico -culturale di una tradizione da commedia dell’arte dove al centro della scena c’è l’attore e poco altro. L’essenzialità al servizio di un’idea. Ma non è questo che trattiene il respiro quanto una implosione della stessa dinamica che appartiene ad ogni singolo episodio. La nostalgia di un uomo per il suo passato da marinaio, ora costretto a chiedere la carità, è rappresentata da Carmine Maringola legato a funi da funi da dove pendono delle ancore, simile ad un Pulcinella che si muove con una gestualità meccanica e seriale, logorroico nel raccontarsi e raccontare la sua vita a bordo e quel mare che ora è lontano.
Sputa zampilli di acqua dalla bocca come tante scie che vanno a colpire di striscio gli spettatori delle prime file. È un uomo che ha perso tutto e si sta consumando nella sua desolazione di solitudine e disperazione. Delira nel suo soliloquio, in cui la sua voce da vita a più personaggi che compongono la sua biografia pregressa: un capitano autoritario, il marinaio costretto a subire ordini, racconta di gesta eroiche consumate in mari lontani, poco probabili. Sono i fantasmi che popolano la sua vita di emarginato ai confini della società, guardato dalla gente come un poveraccio a cui dare un obolo in beneficenza. La sintesi è di un quadro abbozzato ma che non trova mai una via maestra. Qualcosa di simile ad un affresco incompiuto.
Il castello della Zisa si pone come un gioco delle parti dove le due brave e convincenti interpreti sono in scena a dare vita a due donne che escono da loro bozzolo per diventare suore dedite ad accudire un giovane uomo disabile. La prima parte è tutta giocata sui registri buffi: voci bofonchianti, sussurri simili a preghiere o giaculatorie, passi sincronizzati, divertenti gag che creano disegni nell’aria, circolari, scattanti, dove è il corpo che recita senza necessità di un testo drammaturgico che sostenga l’azione. Le provano tutte a svegliare dalla catatonia il loro giovane assistito vestito di azzurro, un principe azzurro addormentato nel suo “castello fatato”. C’è una comicità di fondo, quasi surreale, con la presenza di due bambole caricata come dei carillon che creano l’impulso (prova d’attore anche in questo caso di Onofrio Zummo) per un improvviso risveglio temporaneo, saltellando come un manichino senza controllo. C’è talento in tutti e tre ma questo non basta per arrivare a creare un finale che lasci il segno. Anche in questo secondo episodio si prova la sensazione che sia mancata una soluzione che portasse a compimento il lavoro. Dei tre “Occhiali” (tutti i protagonisti sulla scena indossano degli occhiali) quello che convince di più è Ballarini.
Emma Dante si avvale di Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco, un uomo e una donna consumati dalla vecchiaia, lei ricurva su se stessa, lui tremolante e impacciato. Indossano delle maschere grottesche che esaltano ancor di più l’aspetto di chi ha visto scorrere tutta una vita sulla loro pelle. È come un amarcord dove la nostalgia fa riaffiorare ricordi struggenti, usciti da un baule che assomiglia tanto al cilindro di un prestigiatore. Ballano stretti l’uno all’altro, rievocano gli anni della loro gioventù, bevono spumante da una bottiglia, lei scova il suo vestito da sposa. Il tutto è sulle note delle canzoni italiane che sono la colonna sonora di un’Italia spensierata e allegra, dal Ballo del mattone ai Watussi, passano per Edoardo Vianello e Rita Pavone. Un viaggio a ritroso come una sorte di terapia psicoanalitica che riporta la coppia a rivivere la loro vita precedente, Via le maschere della vecchiaia ridiventano giovani e si spogliano, fanno all’amore per lasciarsi andare a danze sfrenate ( la regista però eccede per uso della musica e dei movimenti che diventano a tratti eccessivi e reiterati), costringendo i due interpreti a saltare da una parte all’altra della scena. C’è poesia e struggimento in Ballarini, c’è un uso simbolico degli oggetti (così accade anche nei due precedenti), tutto sfuma come un sogno, lui sparisce e lei ridiventa vecchia come una Cenerentola a cui è stata data l’illusione di diventare principessa per il tempo necessario di provarlo, e subito dopo l’incantesimo svanisce.
La poetica di Emma Dante si intuisce e da vita a momenti molto godibili e convincenti ma il risultato finale sembra essere parziale, molte idee, tanta energia in scena, la valenza onirica che traspare. L’essenzialità degli allestimenti fatti di poche cose. Un Teatro povero in questo senso a cui viene lasciato ampio spazio alla presenza degli attori dove il linguaggio e la recitazione verbale è volutamente scarna. Tutto questo al pubblico convince e premia con evidente soddisfazione.
Trilogia degli Occhiali
Produzione sud costa occidentale
Teatro Mercadante Napoli CRT Milano
Théâtre du Rond-Point, Paris
regia di Emma Dante
visto ai Teatri di Vita di Bologna il 21 gennaio 2012