RUMOR(S)CENA – GENOVA – Come ogni grande tragedia anche questa Maria Stuarda di Friedrich Schiller racconta di una contrapposizione irriducibile cui solo la morte potrà dare scioglimento e risoluzione. Ma se nella tragedia classica la contrapposizione si realizza e sprigiona tra l’uomo ed il suo Fato, in quanto destino tolto alle sue mani, nella tragedia romantica, anche nella sua declinazione neo-classica, si muta in un più terreno contrasto tra quello stesso essere umano e la Storia, e attraverso di essi tra Sentimento (il segno della umanità di ogni uomo e di ogni donna) e la Politica, ovvero il Potere (prodotto peraltro di quella stessa umanità), in un intreccio da sempre profondamente iscritto nell’esistere ma ora, purtroppo, molto più lontano e alienato.
Davide Livermore, in questa sua nuova e originale messa in scena, coglie nel profondo questa contrapposizione, ma insieme la reinterpreta come una speculare e dinamica scissione in cui la diade si fa carico alternativamente di uno dei due elementi di energia che si combattono. Maria Stuarda ed Elisabetta come le due facce di una stessa medaglia, ciascuna delle quali capace di trovare nel rapporto con l’altra la sua giustificazione, in fondo più metafisica che psicologica, che anticipa, proprio nella morte come orizzonte inevitabile, non l’annullamento di una o dell’altra ma una possibile, se non auspicata, ricomposizione l’una nell’altra. Lo fa innanzitutto sottolineando e valorizzando l’elemento del femminile già presente nella scrittura schilleriana, che la traduzione di Carlo Sciaccaluga avvicina efficacemente al nostro presente, e facendo precipitare nell’una (Maria Stuarda) la forza del sentimento e nell’altra (Elisabetta I) la prigione della necessità politica, in una sorta di reciproca nostalgia in cui si culla una aspettativa consolatoria, quasi di unione o meglio di ri-unione (come la mela platonica), sempre attesa e sempre rimandata ma appunto irrealizzabile.
La decisione di Elisabetta, comunque profondamente contrastata e contraddittoria, di mandare al patibolo Maria recide quel filo, interrompe quel percorso, liberando nella morte dell’una la parte più tragica, in quanto imprigionata nel potere, dell’altra. Non si tratta solo o tanto della scelta drammaturgicamente e registicamente assai efficace di far scegliere attraverso la caduta di una piuma, a sipario aperto, chi delle due attrici protagoniste (e interscambiabili) interpreterà l’una o l’altra di quelle due donne straordinarie, si tratta, a mio avviso, soprattutto di una intuizione estetica, cui si forniscono abiti e strumenti per essere chiaramente percepita.
Una scelta di valorizzazione del femminile che, poi, trova ulteriore conferma nell’idea di far interpretare a donne alcune, a volte plurime, parti maschili (una sorta di ribaltamento del teatro elisabettiano), per sottolineare forse una comune radice esistenziale, etica e valoriale che nel tempo del patriarcato si era andata dimenticando in favore di una dispersiva e impoverente (per le donne ma anche per gli uomini) gerarchizzazione. Ma soprattutto una scelta capace di offrire il destro interpretativo a due grandi attrici del nostro teatro, Laura Marinoni, una convincente Maria Stuarda nella serata della prima, e Elisabetta Pozzi, ancor più implicata forse, se così si può dire, e convincente di fronte alle spigolosità di una Elisabetta ansiosa ma incapace di recuperare una propria autonoma autenticità (sentimentale), cui pure pare tragicamente aspirare.
Attorno a questo cuore interpretativo e per meglio sottolinearlo, Livermore costruisce un transito scenico che, fedelissimo nella narrazione rispetto al testo schilleriano, è ricco di elementi alienanti e distanzianti, dalla distopia dell’ambientazione storica, alla divaricazione figurativa tra i costumi delle regine (di Dolce & Gabbana) e quelli degli altri (della brava costumista del Nazionale Anna Missaglia), alla scenografia che favorisce una prossemica vivace. Infine la partitura musicale che spazia dai rinascimentali song di John Dowland e Davide Rizzio, al barocco Lamento di Didone di Henry Purcell, fino a modernissime sonorità dark e contemporanee, una partitura dunque dissociata tra passato e futuro che sostiene efficacemente il ritmo libero di una parola che si espone in una grande profondità significativa. Incastonata in tutto questo la beethoveniana citazione dell’Inno alla Gioia come noto composto su una ode dello stesso Schiller.
Va detto che in certi passaggi questi elementi formali, talora con sfumature glamour, tendono ad avere un certo sopravvento, quasi a suggerirci che, tra teatro elisabettiano e barocco, in fondo l’orpello serve a nascondere un vuoto affinché l’oscuro venga messo in luce. D’altra parte il virtuosismo è modalità molto teatrale e spettacolare, e Davide Livermore ne ama in particolare qualche eccesso figurativo, in un desiderio di contaminazione con molto attuali situazioni inerenti il femminile, quali in particolare le violenze sessuali.
Uno spettacolo dunque che, a partire da un testo di grande profondità e di indubbia modernità in questa sua lettura, è di forte impatto, appunto, innanzitutto visivo, e che lascia giusta libertà e briglie sciolte alla intepretazione non solo delle due mattatrici ma anche di tutti gli attori e attrici coinvolti, che danno nel complesso una buona prova di sé. Di notevole presenza scenica e di ottima vocalità, infine, la performance dal vivo in chitarra e voce di Giua, capace di interagire significativamente con il dramma mentre questo si sviluppa.
In fondo, per concludere, è un ritorno dopo quasi sessant’anni a Genova di questo che fu già un cavallo di battaglia di Adelaide Ristori di cui il Teatro Nazionale con il Museo Biblioteca dell’attore celebra in questi mesi il bicentenario della nascita.Infatti, ricordiamo, proprio al teatro Politeama Genovese Luigi Squarzina mise in scena nel 1965, nella traduzione di un allora giovane Enrico Filippini e con le musiche di Sergio Liberovici, una Maria Stuarda non dimenticata, con due altre grandi interpreti del teatro italiano, Anna Proclemer e Lilla Brignone, cui faceva da contraltare un cast di straordinario valore a partire da Giorgio Albertazzi.
Una impegnativa ma anche prestigiosa co-produzione del Teatro Nazionale di Genova, del Teatro Stabile di Torino e di CTB Centro Teatrale Bresciano, al teatro Ivo Chiesa di Genova il 18 ottobre, in prima assoluta, e quindi suscettibile di ulteriori modifiche, come capita al miglior teatro che evolve anche nell’interazione con il suo pubblico. Un tutto esaurito che non si vedeva da tempo (galleria riaperta per l’occasione) e lunghi applausi per un testo che non ha fatto sentire la sua inusuale durata. In cartellone fino al 30 ottobre poi in tournée.