RUMOR(S)CENA – FIRENZE – L’autore disse “rischiate”, e Marco Cacciola ha seguito il suo consiglio. Non sono mancati gli azzardi nel suo allestimento de Le rane, ma l’invito a osare non è l’unico che il regista e il Centro di Produzione Elsinor hanno raccolto. La scelta del Teatro Cantiere Florida di aprire la stagione proprio con questo spettacolo, è senza dubbio azzeccata perché anche la versione di Cacciola si è cimentata nella discussione sul vecchio e sul nuovo, nonché sul ruolo del teatro all’interno della società contemporanea. Due aspetti delicati, che rendono l’opera di Aristofane tanto universale, quanto impegnativa.
Dalla prima regionale del 10 novembre, è emersa la chiarezza degli obbiettivi prefissati. Il primo, declinare al presente le citazioni originali, stabilendo un parallelo tra le incertezze culturali e politiche dei giorni nostri e quelle che laceravano l’identità ateniese, al termine della guerra contro Sparta. Il secondo, risvegliare la responsabilità partecipativa, anche nel pubblico trincerato aldilà della quarta parete. Cacciola distribuisce i compiti tra le due parti dello spettacolo, tanto diverse per toni e meccanismi da risultare come due drammaturgie distinte, dialoganti solo per intenzione concettuale.
Nella prima parte, il sipario è chiuso e l’azione confinata nel proscenio. Tutto è affidato a Claudia Marsicano, Matteo Ippolito e Lucia Limonta: un terzetto, o meglio una coppia comica con terz(errim)o incomodo, dato che Lucia Limonta interpreterà i diversi personaggi che Marsicano-Dioniso e Ippolito-Xantia incontreranno nell’ Ade. Il gioco delle sostituzioni tra coevi di Aristofane e nomi riconoscibili del presente appassiona poco e offre il trastullo della parodia un po’ sciocchina. Molto, molto più divertente è l’umorismo paradossale: è qui che i riferimenti moderni funzionano, specialmente quando sconfinano nell’osceno, dandoci l’impressione di poter sperimentare un pizzico del gusto sboccato delle lenee.
Una dimensione comica, dove Claudia Marsicano e Matteo Ippolito maneggiano il tempo come un elemento fisico, tramite il ritmo e la pervicacia delle pause: lanciano battute che sembrano andare alla deriva, ma d’un tratto l’orbita del tempo vuoto le aggancia, ne aumenta la massa e le catapulta contro il pubblico, facendo esplodere la risata.
La coppia Marsicano Ippolito non è soltanto godibile, ma rappresenta il territorio in cui i due si osservano, misurandosi a vicenda per costruire una strategia che sappia conquistare lo spettatore e contenere linguaggi e momenti differenti.
Il contrappunto di Lucia Limonta fa ruotare il contatto trai personaggi, e dei personaggi con il pubblico; gag e prosa si susseguono, appena scandite da Claudia Marsicano, che con un gesto o il tono della voce guida l’attenzione della platea attraverso le varie scene. Tra senso e non senso, emergono così parentesi di notevole intensità, come il monologo che Matteo Ippolito sembra cacciar fuori quasi per caso: un discorso in crescendo sull’ansia di stabilire primati tra le cose. Sempre a proposito di paradossi, forse il momento più interessante dello spettacolo.
La vocazione partecipativa de Le rane era stata annunciata. Della seconda parte, sapevamo che un gruppo di non professionisti avrebbe raggiunto gli attori sul palco per interpretare il coro, esattamente come i cittadini ateniesi del quinto secolo avanti Cristo. Ignoravamo però, che sin dall’inizio sedevano già in platea: mescolati in mezzo al pubblico, si prestavano a fare da spalla a Dioniso e Xantia con una puntualità che, si deve ammetterlo, risultava più sorprendente che sospetta.
Il coro dunque, si rivela e va a schierarsi sul proscenio: sono persone di ogni età e sesso, di qualsiasi significato si possa attribuire alla parola provenienza; tramite la voce dei corifei (Giorgia Favoti e Francesco Rina) iniziano l’esortazione a vivere attivamente la poesia, la cultura e il proprio tempo. Poi il sipario si apre, e le parole cedono il passo all’azione scenica. Improvvisamente ci si ritrova altrove, in un paesaggio che il bravo Federico Biancalani ha materializzato come uno Stige cyberpunk, dove il dionisiaco segue la ritualità della musica trance e i bpm della techno. La contesa tra Euripide ed Eschilo prevista in Aristofane, è sostituita dalla coreografia estatica in cui i membri del coro pitturano i corpi nudi degli attori con i colori del sacro e del profano, preparandoli a una lotta che diverrà procedimento sincretico, atto generativo di un’umanità impegnata nella dedizione alla bellezza.
A livello di concetto, la licenza è gradevole e l’aspetto visivo certamente curato, almeno dal punto di vista formale. Come ammirevole è il lavoro del coro e sul coro, perché siamo di fronte a dei non professionisti che dimostrano grande professionalità, anche grazie alla regia che ha investito e scommesso su di loro, vincendo la specifica partita. Tuttavia, la ragione che più di ogni altra rende apprezzabile l’operato di tutti, è l’essersi confrontati con un progetto che riserva non poche preoccupazioni: il dittico di drammaturgie, la necessità d’includere e distribuire spazi espressivi, gli escamotage per ritrovare qualcosa dell’antico impatto che ancora scuota lo spettatore, hanno del macchinoso e per di più sanno di poter contare sull’aurea dell’alto, o magari dell’audace, nel caso si dovesse correre ai ripari.
È vero che, nel momento in cui il vicino di posto salta su dalla poltrona e partecipa al sabba, veniamo spinti perlomeno a dondolare la testa o addirittura a imitarlo, pur non essendo “infiltrati” tra il pubblico come lui. A nessuno piace far la figura del pedante o diononvoglia, di chi non sa lasciarsi andare: tutti vogliono esserci, tutti vogliono partecipare. La domanda è se partecipare significhi lasciarsi condizionare, se coinvolgere equivalga a precettare.
Visto al Teatro Florida di Firenze, il 10 novembre 2022